La più lunga villeggiatura della mia vita

Per mia fortuna ho trascorso l'estate fin da bambino in campagna e al mare. Dove ho passato più tempo è a Centi, un paese di collina che si trova in Maremma. Da lì si vede il mare, l'isola d'Elba e, dietro, il “dito” con cui la Corsica indica il nord. La nonna, che ci era nata, mi portava lì con sé subito dopo il termine dell'anno scolastico. Era maestra elementare. In treno da Firenze a Pisa, e poi da Pisa fino a Giuncarico, un bel paese prossimo alla via Aurelia dotato di scalo ferroviario. Se non fino a Braccagni, un poco più a sud, scalo ferroviario di Montepescali. Da lì in auto fino a Centi. Mi ricordo uno di questi viaggi. L'auto, una Fiat millequattro nera impolverata per via delle strade ai tempi ancora non asfaltate, era condotta da un certo Tino. Durante il tragitto lui, a domanda, informò la nonna sulle novità degli ultimi mesi. Arrivati a casa sentii un certo odore di muffa, infatti quelle stanze erano rimaste chiuse per mesi, o quasi - magari qualcuno le aveva arieggiate in vista dell'arrivo della “signora maestra”. Sgomento. Le pareti dell'ingresso, o meglio “ingressino”, erano dipinte di rosa, però. Bellissimo. Quel che mi urtava era il silenzio, specie nel pomeriggio, quando la nonna mi obbligava al riposo. Il silenzio rombava nelle mie orecchie. Alla parete opposta al mio letto, alto e in ferro verniciato di nero come quello della nonna, era appesa una piccola riproduzione a colori di un paesaggio della costa amalfitana. I due letti avevano gli ovali della testiera e quelli del fondo racchiusi da quattro snelle colonne terminanti con una palla ciascuna. Gli ovali erano occupati da pitture rappresentanti paesaggi serali, lacustri, per dir così impreziositi da inserti madreperlacei. Ne ho visto un esemplare non so in quale film, per un attimo. Non erano dunque pezzi unici, quei pesantissimi letti. La casa era abbastanza grande per me e la nonna; a parte la libreria ottocentesca del mio bisnonno, e un piccolo caminetto, non aveva nulla di speciale, se non il fatto che era immensamente più vecchia dell'appartamento dove abitavamo a Firenze; ma in rapporto al resto della famiglia era piccola. Non ricordo come ci organizzassimo quando venivano mia madre, mio padre e mio fratello. In effetti attorno alla fine degli anni cinquanta passammo nell'appartamento contiguo, che era grande e guardava sulle colline, sulle valli - in lontananza Montemassi. Verso i primi anni settanta acquisimmo anche l'appartamento di prima, per cui si arrivò a largheggiare in fatto di stanze da letto, di cucine e di salotti. Di gabinetti. Il paese è antico e per fortuna non ha subito come altri l'insulto dell'intonacatura delle case, che sono rimaste, almeno erano rimaste nel “94, anno della mia ultima villeggiatura, in pietra. Non grigia, ma del colore dello zucchero di canna. Per cui al tramonto il tono si accende e strizza l'occhio al cattivo poeta. In alto c'è il cosiddetto castello, una rocca vecchia di mille anni che ne ha subite tante, com' è logico. Una volta ho udito un paesano rammaricarsi del fatto che il “castello” sia abitato e quindi abbia perso il suo fascino. Era una videoregistrazione “pro loco”. Io ci passavo parte delle mie vacanze, voglio dire che stavo “al castello”, certo insieme ad altre famiglie. Il castello di Montemassi è diroccato, invece, e quindi più genuino. Nel cuore del paese ci sono la chiesa, il campanile e, davanti, una piazzetta che si chiama “della Fonte” per ovvi motivi. Sotto e attorno ecco la piccola casba, diverse stradine strette e non profumate, archi, passaggi sempre scuri. Felicissimo il caso che ha voluto la loro angustia: non ci passano auto. Un guaio tuttavia per i restauratori di appartamenti tetti cantine verande balconi eccetera, attività che da decenni è fiorente. Comunque io non sono aggiornato, dal “94, ripeto, non ho più dormito neppure una volta a Centi. Certo ci ho passato per motivi vari qualche ora, e ho trovato il paese imborghesito. Non voglio però sembrare uno scemo come quel paesano che si rammaricava circa il “castello”, per cui la smetto subito. In alto dunque il “castello” medievale, al centro la chiesa e il campanile che ai miei tempi aveva una vocina piacevolissima, anch'essa insidiosa per il cattivo poeta. Attorno all'abitato vecchio, anzi antico, passa come una serpe la strada che con un tornante porta in piazza. Qui piega a sinistra con un nuovo tornante, più stretto. Si transita e si vede l'ingresso della Coop, che ai tempi felici dell'indugio era chiamata per esteso “cooperativa”. All'esterno della strada-serpe non mancano certo altre case, villette e così via, costruite diversi secoli dopo il paese vecchio. Il cimitero dista un paio di chilometri dall'abitato, si trova lungo la strada-serpe in direzione di Massa Marittima, il comune di cui Centi è frazione. Nel cimitero sono sepolti i genitori di mia nonna, mia nonna e se non sbaglio un mio zio. Ai tempi il paese, percorso nei pomeriggi della domenica da file umane in su e in giù per la strada-serpe – le ragazze non fidanzate in gruppo monosessuale - offriva due negozi di alimentari e altro, la cooperativa di cui sopra, con macelleria, e vicinissimo a noi un alimentari privato. Profumo buono, prosciutto scuro e salato. Il forno si trovava “in fondo piazza”. Le donne facevano la spesa e il gestore segnava gli importi in un libretto. Logicamente mi riferisco alle famiglie proletarie, fino agli anni sessanta sostenute da padri minatori. I contadini, secondo me non moltissimi, facevano più o meno da sé. Del resto molte famiglie avevano “il campo”, cioè un orto, che le aiutava non poco; le galline, i “coniglioli” e il maiale, la cui festa si celebrava in autunno. Un luogo di ritrovo era il dopolavoro Enal, dietro la piazza della coop. Ci ho bevuto con raccapriccio la mia prima birra. Dietro c'era una saletta per il cinema in cui ho visto “Totò al giro d'Italia”. L'altro luogo di ritrovo e sede del posto pubblico telefonico si trovava lungo la strada-serpe, direi un centinaio di metri prima della coop, subito fuori dal “centro storico” (si direbbe oggi). Bar, biliardo, giochi a carte. La padrona era se non simpatica schietta, maremmanissima, e comandava – parlo di un'epoca in cui forse il telefono a Centi non lo aveva nessuno tranne il medico condotto e i carabinieri. Il marito, che dava il nome al locale, era invece alquanto taciturno. Negli anni cinquanta la novità, a parte il disastro minerario di Ribolla (1954) entrato nella storia nazionale e nella narrativa (Bianciardi, Cassola), fu la televisione. C'erano due o tre sale dove i paesani sedevano “ammutoliti” (così Bianciardi ne La vita agra) davanti al baluginare dello schermo. In una di queste salette ho visto qualche brano del campionato mondiale di calcio 1954, giocato in Svizzera e vinto dalla Germania (ovest!). Per la vivacità sindacale e politica del paese, dotato di una sezione del P.c.i. (altre non ne ricordo) e di una “festa de l'Unità”, lo Stato aveva posto in loco una stazioncina di carabinieri, pochi in verità, che disponevano di grosse Moto Guzzi (“Super Alce” 500) dotate curiosamente di manubrio anche per il passeggero. Del resto a Centi v'era anche della “criminalità” comune: un vecchio contadino per esempio minacciava o meglio si diceva che minacciasse di bastonatura un geometra in pensione. Non saprei per quale motivo. Costui, marito di una conoscente di mia nonna e con lei frequentatore di un ritrovo privato di chiacchiere detto “l'ortino”, avrebbe potuto incontrare quel suo nemico armato di bacchiolo e avere la peggio! Il maresciallo di domenica veniva alla messa e si piazzava in fondo, vicino all'entrata. Il prete era se non romano laziale - povero, sparuto, madre annessa. Direi disperato. A messa gli uomini non andavano, comunque la chiesa si riempiva. “T'adoriam ostia divina, t'adoriam ostia d'amor”. Ragazze, qualche ragazzo, bambini, donne, signore villeggianti (che in città alla messa nemmeno dipinte), e qualche misero piccolo borghese del posto. In prossimità della cooperativa in un negozio piccolissimo si compravano giornali e giornalini. Il gestore si chiamava Remo. Chi vendesse i tabacchi quando io ero bambino non lo so; dopo li avrebbe venduti, di fronte al posto pubblico telefonico, una florida nubile – e anche giornali, quaderni, penne, giocattoli, cartoline, francobolli. 'Eccolo Fausto, col su' bastoncino!' - mi disse una volta. “Le scuole”, edificio novecentesco giallastro, un solo piano rialzato, con davanti un giardinetto trascuratissimo dal Comune e due o tre alberelli, si trovano, in prossimità del cosiddetto Portino, al centro di una sorta di piazzale a due passi dal “castello”. Il giardinetto ai tempi era chiuso da un basso muro su cui ho trascorso molte ore. Qualche gradino portava al portone. Due muretti attorno, anch'essi ben conosciuti dalle mie terga. Davanti alla scuola, oggi asilo nido, lo spazio era abbastanza grande da ospitare calcio stradale di ragazzi. 'Con Fausto siamo del gatto'. Ecco la mia fama di giocatore proclamata una volta al momento della formazione delle squadre. Una via detta della Canonica va dal Portino dentro il paese, fino alla citata piazzetta della Fonte; un'altra, detta “fuori le mura”, è la scorciatoia, ripida, per arrivare giù in piazza. Orti, vista panoramica: i tramonti inducono al luogo comune poetico. Il Portino, strano nome, ancora negli anni sessanta serviva ai muli, carichi di legna o di sugheri; e alle donne, che riempivano alla fontana le brocche, ignare del loro futuro kitsch. Mi riferisco alle brocche, o “mezzine”, non alle donne. Dietro “le scuole” c'era un bell' edificio in pietra, largo, a pianterreno la bottega di due fratelli fabbri ferrai. Un antro di notevole interesse, ma attenzione alla retorica. I due fratelli, che abitavano sopra la bottega, erano brusco l'uno, l'altro affabile, una moglie e un figlio ciascuno. Costoro, morti i genitori, hanno venduto tutto. Mi resta memorabile, negli anni sessanta, aver visto la costruzione di un carro da parte dei due fratelli, forse l'ultimo della serie, in particolare l'operazione di fissaggio dei cerchioni in ferro alle larghe e alte ruote di legno: prima arroventati, poi applicati. Poco sotto il Portino, a sinistra, parte la strada che conduce “alla Rocca”, un paese che da Centi non si vede: all'incirca imperdibile la sua propaggine rocciosa. Carina la casba. A parte la seduta sui muretti della scuola, cosa ci facevo tutto il giorno, a Centi? Bisogna distinguere. Da bambino cercavo con qualche successo di sottrarmi alla custodia della nonna, ai riposini pomeridiani, e di unirmi “sotto l'arco”, ovvero dove s'entra nell'area del “castello”, ai coetanei, inclini anche a farmi pagare la mia estrazione sociale e la fiorentinità. Dentro un asilo di suore dotato di viale ombroso, “sotto i tigli”, ricordo invece una mattinata di impegnate finzioni partecipate da numerosi coetanei e coetanee, aventi come oggetto il rapimento di mio fratello. “Fiorentin mangia fagioli, lecca piatti e tovaglioli!” Più avanti nel tempo estendevamo i nascondini non dico a tutto il paese, ma quasi - piacevoli per chi si rimpiattava, impossibili per il cercatore. Si facevano corse in bici fino alla fine “della cilindrata” (dell'asfalto) e ritorno. E con due amichette romane giochi di carte, Monopoli. Da adolescente ebbi precoci wertherismi con la maggiore delle due sorelline romane, compagne mie e di mio fratello. Anche lui tentante. Studi riparatori, anche, in vista degli esami settembrini. Ripetizioni di latino da un prete, a Montemassi, lontano depositario di sapere cui pervenivo con un'auto guidata da un semimuto tanghero. Estenuavamo gli adulti per farci portare al mare a fare il terzultimo bagno della stagione, poi il penultimo eccetera. Si facevano merende all'aperto, in loco dette “cene”, preparate dalle mamme e dalla nonna con gran dispendio di portate. A piedi, lontano! 'Mangia, Fausto, non fare lo scemo!', mi disse il padre della mia piccola amica romana, una sera. Lunghissimo quel ritorno in paese – perciò, arrivati a casa, le mamme organizzarono lì per lì una cena in casa nostra, riuscitissima. Avevamo un bel caminetto grande che per di più funzionava. Mica è scontato. Iniziata l'età della moto, ebbi escursioni anche non solitarie sulla Nsu 250. A proposito: il paese pullulava negli anni sessanta, prima del trionfo della democrazia automobilistica, di moto anche non disprezzabili, tipo le Mondial, e dava da lavorare a un riparatore, fatto che oggi mi pare onirico. Un meccanico a Centi! Notevolissima, una vecchia Gilera 500 “Saturno” che però era condannata a brevi percorsi dal paese a un vecchio lavatoio vicino al quale il proprietario aveva “il campo”. Ecco cosa ci facevo a Centi. Un pomeriggio di ferragosto dei primissimi Sessanta colpito da maltempo e da “nebbia agl'irti colli” mi vide vagante alla ricerca della mia Lotte. A Centi ho ricominciato a passare qualche settimana ogni anno dopo la nascita di mio figlio, nel 1984. E a camminare ogni mattina per ore. Da ciò il madrigale insidioso della giornalaia in merito al mio “bastoncino”. Dal paese senza auto o moto si possono fare numerosi percorsi solitari non privi di tornaconto estetico. Leggevo libri che mi ero portato da Firenze. Nel pomeriggio scendevamo al mare. Dimenticavo Fonte Frasca, verso la Rocca, e Fonte Tafàno, verso Massa: due mete per sgranchirsi le gambe. Perfino mio padre deve essersi degnato di arrivarci, a Fonte Frasca. Al ritorno, verso le undici di un mattino di luglio, dopo la “Fastidiosa di Centi”, lontano e sinistrato rifugio di una squadra di cinghialai, un'auto dei carabinieri mi si fermò accanto. Mi chiesero i documenti, dove andavo - mi vedevano spesso in marcia - e perché lo facevo. A casa mia, risposi alla prima domanda; per mio piacere, risposi alla seconda. Sotto Botri, punto di riferimento da Centi verso l'invisibile Rocca, nella “macchia” un mattino tardi incontrai una tedesca che si era persa e graffiata nel folto. 'Wrong wear'. Pareva una collegiale. Ma attempata. Ero conosciuto da tutti - sia pure come presenza estiva facevo parte del paese. A ciò ho rinunciato. Di recente anche alla casa. Prima ebbi un accenno di lite con un vicino radioamatore automobilistico (moda tramontata) che disturbava attorno alla mezzanotte. Poi mi son trovato in disaccordo con mio fratello circa la manutenzione della casa. Dal 1949, se non da prima, in agosto si lasciava Centi e si scendeva a Follonica, breve transito, dove si restava fino a settembre inoltrato. So la data da una foto che ritrae me e mia madre sulla spiaggia. Sembriamo contenti. Follonica era un paesone povero. Da qualche parte doveva essere attiva una fabbrica di conserva di pomodori, ne ricordo l'odore nauseante. C'erano una quantità di edifici non tutti modestissimi, per lo più a un piano, direttamente costruiti sulla spiaggia, a due passi dal mare. Del resto non è un caso raro, penso a Viareggio. La nostra casetta si trovava a nord, vicino a Pratoranieri. Ai tempi soltanto un nome. Una mattina si camminò verso Torre Mozza, la spiaggia era più profonda che da noi; sulla destra, dove terminava, qualcuno aveva tirato su dei casottini di canne e foglie che mi piacquero molto. Casetta misera, la nostra. Come tutte disponeva di una veranda, però, e certo offriva la possibilità di uscire sulla spiaggia in un attimo. Stava su una piattaforma di cemento abbastanza elevata - un metro e mezzo? Forse di più, infatti riparava dalle mareggiate, del resto deboli. Il golfo non è immenso e l'isola d'Elba lo protegge. Comunque fosse e sia, chi ci affittava quelle poche stanze e la veranda, di cui due lati, quello verso il mare e quello laterale destro, erano fatti di legno a riquadri tinti di verde, verdi anche le stuoie avvolgibili, erano tre fratelli, un uomo e due donne, dediti alla produzione e allo smercio di bomboloni (alla crema o alla marmellata) e simili. Sto cercando di chiarire che abitavamo accanto a un laboratorio di pasticceria e a un bar aperto sulla spiaggia, che ricordo vecchio, ombroso e poco frequentato. Qualcuno al mattino si caricava di uno scatolone di legno protetto da un coperchio di vetro e marciava lungo la spiaggia vendendo i bomboloni caldi. Non ne so precisare tanto l'odore che fiutavo allora, quanto le vespe che attiravano. Ricordo invece la macchina impastatrice. Sul retro l'edifico aveva uno spazio basso rispetto al piano stradale che permetteva di sedere all'ombra, già nel primo pomeriggio, vespe permettendo. Un paio di garzoni del laboratorio vi potevano fare gli spiritosi davanti alla mia graziosa mamma eseguendo qualche acrobazia circense che le dava il “giramento di testa”, così lei una volta chiedendo ai due di farla finita. Al che i ragazzi replicarono, non meno esagerati, che la testa mia madre poteva tagliarsela, così non le sarebbe più girata. 'Te, scherza coi tuoi pari!', replicò lei. Presi nota. Separavano gli edifici l'uno dall'altro passaggi che erano terra di nessuno, voglio dire che chiunque poteva scendere in spiaggia, liberamente, per quanto storcessero la bocca i piccolo borghesi installati in quelle casette. Noi bambini si prendeva la rincorsa lungo il nostro e si saltava nella rena sottostante – facendo a chi arrivava più lontano. La strada dietro separava la fila di edifici da una collinetta ricca di pini (e di pinoli!) parallela alla spiaggia. Oltrepassata la sua bassa cima si scendeva verso la ferrovia Livorno-Grosseto, lungo la quale celato agli occhi dei più si trovava un insediamento di miserabili che si arrangiavano vivendo in poverissime baracche. Residuo della guerra e segnale della pena di una parte del popolo italiano, la solita, in quegli anni. Percorrendo verso sud la strada s'incontrava a sinistra un cinema dove ho visto, tra gli altri, un film con John Wayne che fa il palombaro - e gli va a finir male. Accanto al cinema c'era un albergo che a me pareva di tutto rispetto. Sul lato destro faceva bella mostra un ristorante o un dancing, non saprei. “Miramare”? In fondo, al termine della pineta cui ho accennato, lo spazio si allargava. Dalla parte del mare avevamo la gelateria Pagni, luogo di mia saltuaria delizia. Il paese vero e proprio si allungava di lì verso l'interno. Dopo le settimane di Centi poteva dare l'impressione di una piccola città: negozi veri, giocattoli e aggeggi da spiaggia, un bel giornalaio, un paio di piazze, da ultimo la stazione ferroviaria e un altro cinema dove nel “70 ho visto “Easy Rider”. La chiesa principale, in cui non sono mai entrato, si chiama San Leopoldo, apprendo da Internet, e ha la caratteristica di esporre delle strutture (“prònao”) in ghisa! Una mattina, molto meglio, mi apparve in una di queste due piazze, la più popolare, un cavallone che tirava un carro con le ruote da camion carico di lastre ghiacciate. Parallelepipedi. Questo mi riporta all'interno delle case, ai tempi ancora non frigoriferizzate, dotate invece di “ghiacciaia” - da cui la necessità rappresentata in movimento dal carro grondante e dal magnifico cavallone da tiro. I nostri vicini, non i pasticceri, i nostri vicini a destra, cioè a nord, avevano la ghiacciaia, un bel mobilotto robusto di legno rivestito internamente di metallo. Che io sappia le ghiacciaie sono pressoché introvabili, e sia pure trasformate in chissà che. Erano una famiglia di giganti - noi, piccolini tutti; sopra il metro e ottanta; anche i due figli minori, Lorenzo e la Franchina, erano già spilungoni. La loro casa, credo di proprietà, mi piaceva, grande, sobria, funzionale, minimalistica; severa? Disponevano di un'Alfa Romeo millenove, bellissima, da collezione. Noi saremmo passati dalla Topolino alla Giardinetta, poi alla Fiat millecento, quindi alla Giulietta, in quell'arco di anni (“49 -”57). Avevano la veranda anche loro, grande e in muratura, ma meno simpatica e ariosa della nostra, cui resta legato un mio primo pomeriggio, quando da solo rimirai le mille luci delle onde con in mente la notizia del giorno: era morto Alcide De Gasperi. 1954. I giganti avevano anche un bel barcone (“gozzo”?) che si chiamava “Titta”. 'Franchina, la tu' barca è un troiaio', così un proletario addetto alla sorveglianza di quel “gozzo” e di altre barche. Papà non fu mai un gran nuotatore, del resto neppure io. Il mare non è la mia cosa, dopotutto, solo che allora non lo sapevo. Una mattina i vicini spilungoni c'invitarono a fare una gita sulla “Titta”. Fermi più o meno a largo, qualcuno s'immerse. Ebbene, papà si buttò nell'acqua, non un gran tuffo: non so più se finse, per fare uno scherzo alla mamma, di stare affogando, comunque restò con la faccia nell'acqua, fermo il dorso, penzolanti le braccia, come un morto. Mi sgomentò. Chissà! Resta il suo collo, cui qualche volta mi sono appeso mentre lui nuotava. Docce non ce n'erano, né in casa nostra né sulla spiaggia, per cui i miei uscivano dal bagno tenendo in mano la loro cuffia colma di acqua, si sedevano sulle sdraio e poi se la vuotavano sui piedi. Zoccolanti. Preciso il fatto che la spiaggia aveva una “profondità” modesta, direi inferiore ai venti metri. A Follonica ho imparato a nuotare da solo: mi avevano regalato una mascherina subacquea, allora una novità, credo; nell'acqua bassa vicino a riva osservando il “fondale” mi aiutavo a stare orizzontalmente a galla con il lungo manico di un retino da pesca. Presto mi accorsi che potevo fare a meno del sostegno, ed ecco: nuotai. Moltissimi anni dopo a Ginostra (Stromboli) ho appreso a praticare la bellezza del crawl osservando un nuotatore dall'alto di uno scoglio. Per trovare acqua profonda bisognava camminare per diverse decine di metri. La mattina presto vedevamo spesso un eccellente nuotatore che “a largo” procedeva con bello stile, crawl, prima da nord a sud, poi da sud a nord. Una rarità. Anche lui con la sua brava cuffia. La nonna, a Follonica poco presente data la sua antipatia per il pieno sole, lo avrà considerato uno stravagante, quel magnifico nuotatore. Ne sono certo, certissimo. A me invece per anni avrebbe ricordato intenerita che da piccolino mi piacevano le onde basse vicino a riva - “ondine gheghè”. Il “fondale” era animato da creature sempre notevoli per il piccolo “subacqueo” che sarei diventato. La Franchina era la tipica bambina magra, gambe lunghe, piedi in proporzione, braccia e mani pure, che al mare diventa una vera “morettina” su cui risaltano gli indumenti bianchi. Se avete presenti quelle vecchie foto “da spiaggia” di persone oggi morte o diventate vecchissime, foto che danno malinconia e rimpianto, mi avete capito. Panna su cioccolato. Parlava spesso, anche troppo forse, di una campagna in cui lei e la famiglia trascorrevano parte dell'estate, Montebamboli, che ultimamente ho cercato in Internet. Si trova tra Follonica e Massa Marittima, è un' irrilevante collinetta nella pianura. Non so invece se io le parlavo di Centi. Con suo fratello Lorenzo a un tratto iniziammo a giocare a scacchi. Vagamente scimmiesco, nero anche lui, capelli crespi, mi chiese una volta: 'si fa una bella scaccata?' Altri compagni: un rosso di Arezzo più grande di me; insieme abbiamo intagliato di nascosto pugnali da certe assicelle staccate dalle cassette di legno della verdura, un genere, con la frutta, in Maremma imperdibile. Una sera che ero un po' malato a causa di un noioso frignolo lo vidi occhieggiare dentro la mia camera da una finestra. Portava una camicia azzurra a scacchi bianchi, se non bianca a scacchi azzurri! E un bambinetto romano, anche lui scacchista, snello, con una testina di capelli neri, caro amico cui però una volta, in lotta, infilai della sabbia in bocca. Non so più i loro nomi. So bene il nome della Gilda, però. E dei Boris. Un attimo: mia cugina insieme alla sua amica Ciabatti, maggiori di sei anni rispetto a me, durante una di queste vacanze che non so presentare se non come un unico impasto, mi tiranneggiarono relegando la mia voglia di far parte dei loro giochi al ruolo di cameriere. La Gilda, vedi forse il film del 1946 con Rita Hayworth, bella bambina mia coetanea, snella e con i capelli imbionditi, veniva sulla spiaggia da sola, penso che abitasse in una baracca di quelle lungo la ferrovia, dietro la pineta. Non credo di averci mai avuto a che fare, sfuggiva infatti alle mie capacità giocando libera lungo la spiaggia, mentre io avevo un territorio molto più limitato - sorvegliato dagli adulti. Aveva il suo costumino di maglia blu, si bagnava e si asciugava di continuo senza regola, e riusciva a mescolarsi con i piccolo borghesi, anche con la masnada dei Boris. Non sono sicuro che il nome sia giusto - certo finiva con la esse. I Boris abitavano in una grande casa forse un centinaio di metri a sud della nostra, erano una quantità di bambini e ragazzini, giocavano sempre tutti insieme e non avevano bisogno di fare amicizia con gli altri. Era la mia impressione. Quel che mi colpì, un pomeriggio, è che disponessero di una vera e propria pala, non solo delle palettine che ogni bambino aveva insieme al secchiello e alle “formine”. Una pala da adulti! Presero tutti insieme ad ammucchiare una gran quantità di rena davanti a casa loro - logicamente al comando dei meno piccoli. E poi trasformarono la montagnola, enorme, in un'automobile di sabbia. Aprilia? Era un'auto molto attraente della Lancia, l'Aprilia. Oggetto del mio desiderio che nella forma a pedali non ho potuto conquistare, ai tempi, per motivi che ignoro e che non intendo qui bersagliare di congetture melanconiche, la “macchinina” fatta invece di rena era un gioco comune, magari non come le piste per le palline o come i “vulcani”, i castelli. In due modi, o tramite scavo nella rena umida prossima alla battigia (che tutti chiamavano “bagnasciuga”) di un sedile e dello spazio per il sedere, le gambe e i piedi, di un cruscotto e poi, torno torno, del cofano, dei parafanghi, delle ruote con il materiale di risulta che non di rado puzzava – tracce di “acque scure” ai tempi scaricate in mare - a causa di tale spensierata schifezza non sono però ancora morto. O tramite accumulo e successivo modellamento della rena, umida di suo o bagnata artificialmente. Questo modo mirava, credo, più all'estetica che alla pratica, basta pensare alla difficoltà di indurire la rena tanto da poterci piazzare il sedere. Comunque fosse i Boris, che io da una ventina di metri osservai con grande interesse e un po' d'invidia nel loro brulicare, quel pomeriggio costruirono un vero monumento di sabbia all'automobile italiana, alla rinascita post bellica, alla repubblica, non so a che. Alla loro baldanza. Gilda, vagamente zingaresca, è la femmina della mia infanzia, senza dubbio. Mancata? Proprio per questo. Nel “57 lasciammo la casetta vicina alla pasticceria e ne prendemmo in affitto una molto meno misera subito a nord della casa dei vicini spilungoni. Era una costruzione nuova, sul retro aveva un giardinetto, disponeva del suo bravo corridoio da cui si passava nelle stanze, numerose stavolta e in armonia con la crescita di mio fratello, con la presenza della donna di servizio, Rita, e con i pochi soggiorni follonichesi della nonna. Soprattutto con il bisogno dei miei di non sfigurare qualora amici fossero venuti a trovarci a Follonica. La veranda era grande e aveva voglia di parere elegante. Mi ricordo tuttavia poco di questa nuova casetta sulla spiaggia perché ci passammo solo un agosto e spiccioli di settembre. Quell'anno mi spuntò l'asma. In molti dall'interno venivano a fare il bagno e affollavano la spiaggia - risicata. I più vogliosi entravano in acqua subito, di corsa, si tuffavano, alzavano schizzi, spruzzi, si distendevano in quel metro di profondità e presto rientravano nell'asciutto. Si rotolavano nella sabbia, forse per la gioia di trovarsi al mare, al sole. Presto asciutti ricominciavano. La convivenza tra gli stanziali e i domenicali, ristretti gli spazi soliti, non dava adito a nessuno screzio, mi pare, semmai a qualche occhiata sdegnosa e, a sera, ai commenti anche cattivi che gli stanziali, di nuovo padroni della spiaggia, si scambiavano. All'ora di pranzo i bagnanti domenicali si ritiravano in pineta per pasti nient'affatto diversi da quelli che avrebbero gustato a casa loro. Dal “58 cambiammo mese marino, non più Agosto, ma Luglio, e luogo. Si passò da Follonica a Fiumetto, che è una località subito a sud di Forte dei Marmi. Perché? Non lo so, posso fare solo delle ipotesi, non senza considerare che la mia asma aveva messo in subbuglio tutti quanti. Di fatto in Versilia non ne ho più sofferto. Versilia: forse più confacente della Maremma, ai tempi ruspante e negletta, allo status di mio padre, avvocato in carriera? Forse abbastanza lontana da Centi per tenere la nonna, ottima ma di fatto ingombrante, a distanza? Vicina a Firenze, cento chilometri per lo più di autostrada facilitanti le visite di papà, cui magari un mese intero a Follonica, in Agosto senza tregua, non andava più. Non lo so. Arrivava con la sua Giulietta il sabato, sicuramente soddisfatto della media in km/h - sempre migliorabile; gustava il corpo a corpo con la moglie (e i due figli), pagava il conto della “pensione” e la domenica sera correva di nuovo a Firenze, da Migliarino a Peretola scatenando la sua brillante milletre. “T.I.”. Non lo so perché abbiamo lasciato la Maremma luminosa, al cui confronto la Versilia secondo me scompare, tutto qui. Fiumetto era, come altre località della costa, poco più di un addensamento abitativo nella sequela di case, casette, ville e villone, bar e ristoranti, pizzerie, gelaterie, che non cede mai tra Viareggio e Marina di Massa lungo quello che in anni lontani era denominato ”lo stradone” e che ai tempi aveva già perso il primato. Divenuto quasi un quieto viale interno, era stato sostituito in fatto di grandezza dal lungomare, che veniva incontro all'automobilizzazione collettiva e consentiva di passare da una località all'altra in pochi minuti, ma aveva interrotto la continuità grandiosa di aria e luce che univa il mare alla profondissima spiaggia e alle case privilegiate che nei decenni erano state costruite in faccia a tanta apertura. I signori che vi trascorrevano settimane o mesi potevano aprire i loro cancelli e subito avviarsi verso il mare. Avevano “lo stradone” alle spalle. Adesso non più: aperti i cancelli dopo qualche metro essi trovavano all'incirca un'autostrada. La democrazia automobilistica aveva battuto il privilegio e sfregiato il paesaggio. La spiaggia, sotto il pieno sole, vero patibolo per i piedi nudi dei suoi piccoli trascorritori, era ed è frazionata o meglio privatizzata da “bagni” innumerevoli: stabilimenti balneari riconoscibili non tanto dal colore delle cabine (“gabine”) e degli ombrelloni, quanto dai loro nomi, “Genzianella”, “Milano”, “Eldorado”, “Eden Park”, “Bernina”, “Luisella”, “Mario” eccetera. Logicamente più o meno modesti, più o meno eleganti, consistevano nel parcheggio, nel preliminare spazio organizzato attorno alla direzione o alla casetta del bagnino. Attorno o davanti a un'altalena - della cui oscillazione anche estrema qualcuno si approfittava poi con lunghe inerzie in base al principio che “fin che dura fa verdura” - ecco le cabine disposte a perpendicolo o in parallelo al mare e oltre, in prossimità delle onde, invero molto meno “gheghè” di quelle follonichesi, gli ombrelloni in fila, ohi ohi, ma anche spazi meno angusti, quadrati, coperti da “teli”. Prima di arrivare alla battigia che nessuno chiamava battigia c'erano pronti all'uso i “patìni”, cioè i pattìni, che durante i giorni di scarse ondate i bagnanti prendevano a nolo. Quello del bagnino era verniciato di rosso. Salvataggio. Spesso rosse sventolavano le bandiere a segnalare che il bagno era pericoloso, a causa non tanto dei cavalloni (un vero spasso versiliese), quanto delle “buche”. Dei mulinelli. Mai viste tante bandiere rosse in vita mia come in Versilia. Fiumetto aveva tre poli di riferimento: nell'interno l'ampia piazza della chiesa; lungo il viale Apua, che conduce fino alla via Aurelia, un grosso edificio detto “Versiliana”; e vicino al lungomare una sorta di piazza dotata di giardino, di bar tabacchi, gelateria - giornali? Forse; e attraversata dallo spodestato “stradone” che già ai miei tempi nessuno chiamava più così – ne ho trovato infatti solo decenni dopo la denominazione leggendo Alberto Savinio, il fratello versatile di De Chirico, che ebbe casa già prima della guerra al Poveromo, a nord del Cinquale, prima dei Ronchi. Al termine del viale Apua, già sul lungomare, c'era un ristorante-pizzeria che si chiamava “Maruzzella” - in onore della protagonista di una canzonetta napoletana. A fianco del viale Apua c'è una magnifica pineta e un fiumiciattolo, il Fiumetto. Una notte insieme a tre o quattro altri ragazzi prendemmo una panchina dalla pineta, la trasportammo sul ponticello che porta nel folto, verso il parco della Versiliana, e la gettammo nell'acqua paludosa del Fiumetto. Diversi uomini del posto si accorsero subito della bravata mal eseguita e ci costrinsero a bagnarci i calzoni in quello schifo per recuperare la panchina. 'Oh che vi dava noia?' Difficile rispondere allora, e di più oggi, comunque forse il punto stava proprio nella noia, che mi pare un prodotto anche della vitalità, perciò tanto più minaccioso quanto più giovani si è. Non mi ricordo nulla dei primi anni a Fiumetto vissuti sotto il dominio di mia madre, se non che il cambio del mese marino mi portò nel “58 per la prima volta a Centi in agosto, non in luglio, per cui feci la conoscenza, una mattina, con la maggiore delle due sorelline romane, che sarebbe stata l'agra femmina della mia adolescenza. L'episodio della bravata, maleseguita quindi meglio definibile come bischerata, sarà avvenuto nel “61 o l'anno seguente, quando avevo quattordici o quindici anni. Tra la gelateria prossima alla piazza e il bagno “Eldorado” mi ero fatto qualche amico che ritrovavo anno dopo anno. Dei ragazzi della bravata ricordo solo Sandro, un emiliano che si rifiutò di entrare in quello schifo. Io invece, temendo guai più seri, c'infilai le gambe - non so se mi tolsi pantaloni - logicamente dopo essermi tolto i pregevoli mocassini. Altri due mi aiutarono. Quegli uomini del posto si accontentarono e la cosa finì lì. Sandro era un bel ragazzo più alto di me di qualche centimetro, snello, che nonostante l'età sapeva già guidare l'auto. Dopo il cinema, appuntamento di ogni sera, e qualche indugio tattico, verso l'una di notte silenziosi ci s'infilava nel vialetto che, di fianco alla villa di Sandro, conduceva al garage. Spingevamo fuori una delle due auto del padre di Sandro, la Lancia “Flavia”, la mettevamo in strada e via. Non solo Sandro sapeva guidare, ma lo faceva bene. Si girava tra Fiumetto, Pietrasanta, Viareggio, il Forte, il Cinquale: sul lungomare passavamo meno, per ovvie ragioni. Transitavamo però a bassa velocità vicino alle puttane senza fermarci - le guardavamo. Facevamo progetti concreti su quelle curiosissime donne? Non me ne ricordo. Dopo un'oretta il cui cuore stava nella trasgressione, tutta a carico e vanto di Sandro, del divieto di guidare senza patente, si tornava e si ricoverava l'auto. Suo padre, più vecchio del mio, se si fosse accorto della sottrazione ce ne avrebbe fatto pentire e avrebbe tonfato suo figlio. Ai tempi è ovvio che iniziative del genere, fondamentali, erano facilitate dalla scarsità del traffico automobilistico. La vita era più semplice di oggi. Questa è la verità. Un'estate, a Centi, anch'io durante un primo pomeriggio sottrassi l'auto di mia madre, una 500 Fiat, per fare esercizio ovvero indigestione di curve nei paraggi, sterrati. Esaltato dalla mia abilità persi però il controllo dell'auto e finii in un fosso. Sandro una sera al cinema - guardavamo “La banda Casaroli” (del 1962), un bel film in bianco e nero - disse a voce alta che per lui era una “immane cazzata”. Un'altra volta che si parlava di politica, coinvolgimento giovanile ai tempi non raro, disse che a eventuali “espropriatori” delle sue terre lui avrebbe sparato “con il mitra”. Convenzionalmente ragionando Sandro era quindi un borghese agiato, destrorso e antintellettuale. Ciò non toglie, anzi, che sia stato un mio buon amico. Mi passava a prendere dopo cena nella pensione dove oramai avevo la mia stanzetta, una mansarda che mi accoglieva dopo le scorribande e dopo “Maruzzella”: arrivati alle due e passa avevamo fame. Lo vedo meno, Sandro, nella seconda metà dei Sessanta, per esempio non mi pare che fosse con noi quando sradicammo un palo che reggeva non so quale indicazione stradale, nella notte, gettandolo poi dentro un giardino privato; o quando facemmo un sit-in nel centro di un incrocio, una notte. O quando si sottrasse la paletta da una moto dei vigili urbani poi fuggendo ciascuno nel suo letto, intanto che le Guzzi transitavano per le stradine. Una notte in piazza tra alcuni probabili patentati fu scommesso su chi avrebbe abbordato alla maggior velocità la curva che dal viale Apua volta sullo “stradone” verso il Forte. Si trattava solo di una 500 Fiat. Vidi dopo qualche tentativo ben fatto l'automobilina arrivare svelta, molto, curvare e rovesciarsi, per poi ruzzolare tra tavolini e sedie. Andammo in tanti a seguire l'esito dell'avventura a Pietrasanta, all'ospedale. No, Sandro non c'era più. Un altro amico in zona fu Angelo, un ragazzino romano magro e ricciuto, piuttosto simpatico: 'me so' fatto la donna pe' st' estate', esultò con questo endecasillabo una sera. Altri: Alberto, milanese, tozzo, biondo, non simpaticissimo, nasuto. Anche lui si esercitava nella guida su una Bianchina di famiglia, ma nell'area interna al bagno “Eden Park”, alzando polvere e così irritando il maestro di tennis. Un po' bauscia. E Sandro, milanese e milanista – erano i tempi di Josè Altafini - rosso di capelli, bravo nel calcio e nel ping pong. Per caso un inverno lo riconobbi a Firenze, in via del Corso, vestito di un completo grigio. Camicia bianca e cravatta. E c'è stata anche un'amica, ma la vedo più alla fine dell'adolescenza. Veniva da Monza, leggeva il Corriere della sera, ci mettevamo a un tavolino in prossimità del baretto, all' “Eldorado”, e si parlava, parlava. Un adulto che ci aveva sentito una mattina mi si rivolse circa non so quale aspetto della “questione meridionale”. Figurati. Iniziammo a discutere e a un tratto lui confessò che mi aveva voluto provocare solo per farmi parlare - quello gl'interessava, non la “questione meridionale”. La monzese, carina, paffutella, sarebbe stata mia amica per parecchi anni, ci saremmo scritti una quantità di lettere. Cresciuta e sposata, in rotta con il marito sarebbe più di una volta venuta a Firenze ospite di uno o l'altro degli amici del bagno “Eldorado”. Anche nostra. Mio padre nero come il carbone. Temeva il “favoreggiamento” dell' “abbandono del tetto coniugale”? Da tre femmine, tra il “62 e il “66, conseguii in effetti qualche più o meno felice tenerezza. Una era milanese, una fiorentina e una genovese. Quest'ultima soltanto merita di essere ricordata. Piuttosto alta, snella, capelli biondo scuri, naso imperioso, era minore di me di uno o due anni. Mi piaceva. La rimpiango. Io però mi consideravo impegnato con la maggiore delle sorelline romane che avrei di lì a poco rivisto a Centi e non presi sul serio quell'elegante genovese. Che se ne accorse e mi mollò. E Laura? E' una delle più belle creature che abbia conosciuto. Stava con la famiglia nella mia stessa pensione. Veniva mi pare da Pistoia. Bruna, formosa, mi ricordo che una sera andammo in spiaggia vicino al mare: se ci prendemmo per mano non lo so. Mi trovai con lei anche nella sua stanza, sul letto stavano distesi la camicia da notte della madre e il suo “baby doll”. Forse era troppo grande e formosa per me. Eravamo “amici”. Non capii l'antifona. Mancai di presenza a ciò che mi accadeva. Una di quelle estati organizzammo una squadra di calcio; ci allenavamo in un campetto di cui disponeva uno dei nostri, detto “Peppino” perché assomigliava al cantante “di Capri” - “Tu si 'na malatia” - e finalmente incontrammo gli avversari in un campo da calcio preso in affitto al Forte. La partita si svolse nel primo pomeriggio, in Luglio una pazzia. Giocavo terzino destro. L'attaccante che dovevo marcare era il doppio di me. Dopo mezz'ora, sfiatato, appena mi reggevo in piedi. Perdemmo tre a uno. Di mare-mare ne ho fatto poco, nei dieci anni di Fiumetto, anche di spiaggia, in confronto al tempo passato in gelateria, al ping-pong, e nelle seratine. Certo qualche bagno si faceva, si giocava con i cavalloni, si noleggiava il “patìno”, ma il bello dei bagni in definitiva era gustare Coca-Cola gelata subito dopo. Nel ping-pong ero bravino, almeno nei limiti della lentezza dei nostri colpi, avrei poi scoperto guardando inebetito la velocità dei giocatori orientali in tv. Un personaggio assoluto merita che io scriva ancora qualche riga, Tombolo. Tarchiato, istrionico, transitava tra gli ombrelloni: attorno al collo teneva un asciugamano bianco i cui capi stringeva in pugno, i gomiti infilati nei manici di due enormi ceste di vimini piene di mercanzia. Scalzo, a testa coperta, calzoni lunghi ma rimboccati, in camicia, urlava: 'la moda, l'eleganza, la democrazia!'; di tanto in tanto s'accosciava sulla sabbia presso i clienti che secondo lui promettevano di comprar qualcosa e li intratteneva lasciando che i suoi piedi godessero un po' d'ombra. Vendeva magliette, costumi per signora e signorina, o da uomo, certi golfini striminziti solitamente blu che sulla pelle pizzicavano, blue jeans, capo allora assai pregiato specie se “originale americano” (a Centi una marca nazionale di jeans chiamata abusivamente “Usa” era gratificata dell'acrostico “ultimi sudiciumi arrivati”); tovaglie, lenzuola, teli da mare, orologi, accendini Zippo o d'altra marca, radioline; e forse sotto gli strati poteva trovarsi qualche stecca di sigarette di contrabbando. Tombolo era, almeno ai miei occhi, un'emanazione del mercatino americano di piazza Mazzini, a Livorno, luogo di delizie e stramberie collegato alla vicina presenza del celebre Camp Darby, la base militare Usa che marchiava e marchia una località chiamata Tombolo con la sua presenza. Tombolo, dico il quarantenne versiliese, lo guardavo e non mancavo di valutarne la forza - la fatica. Verso la fine della mattinata poteva sedersi per riprender fiato a un tavolino nei pressi del bar dell'”Eldorado” e lasciarsi andare a confidenze riservate ai maschi. Assicurò una volta che un giovane può fare “sei o sette chiavate” in un giorno. Era una sua vanteria autobiografica, rievocativa, e insieme un cordiale augurio a tutti noi. Dopo il 1968 ebbero termine le mie vacanze al mare insieme alla famiglia e si accorciarono anche i soggiorni a Centi. Nel “69 conobbi parzialmente la Capraia - campeggio libero, in cui ricordo che una sera ebbi una clamorosa lite con un ragazzo a proposito dei turni che ci eravamo dati, e che non stavamo rispettando, per le varie incombenze. Nel “70 fui a Tropea, o meglio nel pronto soccorso del suo ospedale, dove fui liberato da un “tappo di cerume” che forse mi si era mosso nell'orecchio destro a causa delle immersioni. Mi ci versarono dentro, da un allarmante siringone, del liquido tiepido che, risgorgando fuori, insieme mi riportò tra gli udenti normali. Gran piacere. Come alla Capraia, dormivamo in tenda, all'interno però di un campeggio appena abbozzato nei pressi del paese, io e la mia ragazza. Non nego tuttavia che una biondina, in loco, mi desse quell'inquietudine che poi una sera affogai nel vino bianco, arrogandomi il posto del mescitore. Si festeggiava la recente nascita del campeggio. Nel “71 conoscemmo un po' della Costa Smeralda, ma anche Porto Torres; ancora in tenda, ma stavolta forniti di austero motociclo germanico, non della 500 di mia madre. Nel “72 insieme a un'altra coppia volammo da Roma ad Atene e da lì pian piano, bus e traghetti, passammo prima ad Alònissos, poi a Skòpelos, due isole di cui mi aggradò solo la prima. Anni fa lavorando a questa materia non mi trattenni da un perfido gioco di parole: Atene-Catene. Niente di memorabile fino al “76, quando andammo a Stromboli, o meglio a Ginostra, qui meritevole di qualche indugio. Era un piccolo abitato - poche decine di nativi e qualche “continentale” bramoso di luce marina e solitudine sotto il vulcano che brontola; si trova a sud ovest dell'isola, mentre la frazione chiamata San Vincenzo, ben più vasta e meno ruspante, sta a nord est. Passare dall'una all'altra delle frazioni è un'impresa per pochi, se non si usa una barca. Di mezzo c'è Lui. Poco e nulla mi ricordo di San Vincenzo, però. A parte Strombolicchio, uno scoglio che pare la costruzione di sabbia molle sgocciolata dalla mano di un bambino. Ho visto gente arrivare di mattina a Ginostra e andarsene via nel pomeriggio, di corsa. Nel “76 ci restammo per tre settimane, abbastanza a lungo per apprezzarne i piaceri, tra i quali il massimo per me era, nel pomeriggio, dopo i bagni e la notevole salita dal mare alla nostra casa, attingere dalla cisterna secchi d'acqua freddissima e vuotarmeli di colpo sulla testa. La “doccia ginostrese”, esperienza che ho tentato di riprodurre altrove, negli anni, fin quando ho preferito non sfidare più il mio cuore. Meravigliosa. Superato lo sconcerto, trovati luoghi piacevoli per immergersi anche sulla scorta dei consigli di qualche insider, quella fu una vacanza memorabile. Il padrone della nostra casa, Salvatore, aveva realizzato una specie di pensione diffusa. I clienti sparsi nelle varie magioni - la nostra si chiamava “casa Barbuta” - a sera si ritrovavano nella sua veranda per l'ottima cena. Delfini in lontananza. 'Salvatòre sono'. Mi chiamò al telefono per diversi anni, in primavera, proponendomi di tornare. Tuttavia a Ginostra ci sono stato ancora soltanto nel “78. Poi più. A parte la meravigliosa doccia crepacuore e i delfini al tramonto, tentanti il malvagio poeta, le immersioni in prossimità del blu scuro che io certo non sfidavo, a parte un certo arco di roccia sottomarino, a parte il vulcano brontolone, quella vacanza era faticosa: servivano molte ore, treno, traghetto, arrivo poco dopo l'alba. E sali, e scendi. Nel “78 tornammo in molti, direi otto. Entrata nella storia è la richiesta da parte di una signorina svizzera a Salvatore: la pensione disponeva di coperte per i letti? 'Segnorina, se vuole coperte ne abbiamo'. Diversi prodi un pomeriggio s'inerpicarono verso il cratere, io pusillo restai sugli scogli, infatti l'idea di vestirmi, di calzarmi, e di patire quel po' po' di salita sotto il sole mi faceva orrore. Vidi quei miei amici formicolare all'insù. Tornarono poco dopo l'alba del giorno dopo. Restammo per due settimane, troppo poco. Dopo qualche anno Salvatore, che chiamava me forse perché gli avevo dato relazione, se non perché gli ero parso il più affidabile - o aveva il numero telefonico mio e non quello degli altri - smise di chiamarmi. Il fatto che rovinò quella seconda volta fu la discrepanza e in definitiva il conflitto tra i pensionanti, sei, e i libertari, due, indisponibili a spendere anche quel poco che la pensione costava. Penuria in fatto di soldi o pauperismo che fosse. Nel 1980, in quattro a bordo della mia Mini giardinetta, andammo in Sicilia. L'auto, concepita per gite brevi all'interno di qualche “shire”, aveva debole la frenata, piccolo il serbatoio della benzina e in più qualche difettuccio dovuto alla sua età chilometrica, ma offriva un bagagliaio capace di ospitare due tende canadesi, quattro sacchi a pelo e quattro borse. Arrivammo in tre giorni nell'isola - tornammo da Palermo in nave. Sul ponte i miei occhi incontrarono lo sguardo apparentemente divertito e derisorio di un tipo, uno straniero facente parte di una combriccola di maschi. Fummo di nuovo in patria il giorno stesso che a Bologna qualcuno aveva provocato la strage in stazione. Lasciata dietro di noi Messina avevamo indugiato a Catania e dintorni, eravamo saliti per un pezzo sull'Etna scansando i trasbordi organizzati su Land Rover, carissimi; avevamo evitato, ancora innocenti, Siracusa, ma non la valle dei templi. Mancammo Girgenti. Per conoscere un poco dell'interno facemmo una spedizione fino a Piazza Armerina, poi sulla costa vedemmo Selinunte che a me sembrò un luogo splendido, e ci fermammo qualche giorno a San Vito lo Capo. Erice mi lasciò di stucco. Ne scrive Antonio Pizzuto in Si riparano bambole. Una mattina fummo a Trapani, dove mi piacque il mercato del pesce e un cannolo che, gustato alle undici di mattina, mi tenne su per circa nove ore senza necessità di ingerire alcunché. Dimenticavo Marsala, dove una sera divorai il primo cous-cous della mia vita. Ci fermammo da ultimo in un posto che si chiama Sferracavallo e da lì facemmo escursioni palermitane, a Cefalù, a Piana degli Albanesi e anche a Corleone, dove acquistati un manufatto tipico siciliano, il tagliaunghie Trim. In corso d'opera, tra un rabbocco e l'altro di olio motore, ci bagnammo molte volte in acque piacevoli e a volte fredde. Ma attenzione al momento di sedere in auto, di ritorno dal bagno! I sedili neri di “vinilpelle” scottavano le cosce, il volante non si teneva tra le mani. Salimmo sul promontorio “più bello del mondo” e visitammo il santuario di Santa Rosalia, di cui gli ex voto mi sembrarono immancabili per il loro gusto macabro e talvolta sanguinario. Il sottobosco della collina era tanto maculato di cartacce e plastiche da far l'impressione di resti di neve, quando il caldo primaverile la scioglie. Il tour durò tre settimane, credo. Eravamo due coppie, delle quali una amicale, comunque il quartetto fu piuttosto felice. Dimenticavo di Palermo la Cripta dei Cappuccini. La giovane negoziante cui chiesi indicazioni sorrise con simpatia quando pronunciai la parola “cappuccini” sciupando la c. Vucciria? Sì, ma di sera e per caso, quindi niente. In Sicilia non sono più tornato soltanto per pigrizia e mancanza d'iniziativa. Di ciò non posso certo dirmi innocente. Il gran caldo patito in Sicilia, a tratti, due anni dopo in Marocco mi sembrò uno scherzo. Bad error andarci d'estate. Mi pareva, alle undici di mattina, di camminare sopra un ferro da stiro pronto all'uso, e non dalla parte del manico. Ci trovammo a Casablanca con due amici svizzeri già venuti insieme a noi a Ginostra, prendemmo a noleggio una Renault color sabbia nuova nuova e via. Visitammo le “città imperiali”, colpevolmente non ci perdemmo nei dedali, infine per accontentare i nostri due svizzeri, lui francese, lei, che a Ginostra quattro anni prima aveva chiesto le coperte a Salvatore, tedesca, facemmo un po' di mare. L'Atlantico mi mise in guardia. “C'est une piscine!” In Marocco si era corteggiati e anzi perseguitati da bambini mendicanti, da guide che si offrivano in proprio, e da tentatori di genere sessuale. Una sera, eravamo in un caffè io e la tedesca, un ragazzo iniziò a farmi il filo e lei, che non ne poteva più, gli fece una scenata beccandosi, prima che il cameriere buttasse fuori il tentatore, l'invito francese ad andare a farsi inculare. A Marrakesh, è ovvio, mi piacque la piazza (Jemaa el-Fna). Scorpioni giganteschi, cobra, frastuono armonico. “Voci di Marrakesh”. Un pomeriggio, dinanzi a una cascata meno poderosa che alta, Uzzo, il caldo e l'impossibile tè bollente alla menta mi fecero apprezzare il Bob Marley che una radio erogava. Non vedevo però l'ora di arrivare alla cena, e di gustare il cous-cous. Neppure in Marocco sono più tornato. Nel corso di tre settimane vidi numerose improvvisi inseguimenti di attentatori alla proprietà privata da parte di velocissimi cittadini imbelviti, e scazzottate poderosissime. Davvero sconsigliabile fare a pugni con un marocchino. Stremati dalla sete ci abbeverammo più volte a fontane lungo la strada e tutti fummo massacrati dalla diarrea. In definitiva cura dimagrante e occasione di sperimentare numerosi e indicibili cessi alla turca. Bactrim. Che dire: i dedali urbani marocchini sono un piacere. Però mi dette da ridere quel che udii una mattina a Fez. 'Piano, piano!' - chiedevo in affanno ai miei compagni svizzeri che si beccavano e tiravano via per me troppo alla svelta, quando un ragazzetto arabo che passava di lì declamò: 'chi va piano va sano e va lontano!' Dal “67 avevo iniziato a passare qualche giorno, specie in estate, alla Ridotta, due o tre misere case, una di pertinenza della mia futura moglie, costruite molto in alto rispetto alla strada che, lungo il fiume Santerno, da Firenzuola porta a Imola. Sotto c'è l'abitato di San Pellegrino. Abbiamo insistito con questa villeggiatura minimalistica fino al 1986, se non sbaglio. Da allora non ci sono più tornato, per cui non so che cosa è successo a San Pellegrino e dintorni dopo i lavori per la linea ferroviaria veloce tra Firenze e Bologna. Perché è finita, la storia tra me e la Ridotta? Era troppo dura, avevamo il bambino, piccolo, i disagi cozzavano con le necessità – i piaceri, innegabili, erano caduti in minoranza. Due nostri coetanei bolognesi da ultimo si erano piazzati lì accanto con i loro tre figli (Juanito, forse in omaggio allo stregone di Castaneda; Dolma e Frodo, forse in omaggio a Tolkien) per sperimentare una vita alternativa. Lui, un abile tuttofare, aveva un tic facciale che rendeva ogni suo dire un enigma, del resto non era privo di genuina ironia e chiamava la moglie, una fanatica, “la direttrice”. Formula entrata nella storia. I tre piccini, dei giandoni, così il padre felsineamente, erano inselvatichiti - iniziavano già la mattina a osservarci dal finestrino basso che dava luce alla nostra stanza a pianterreno. La casetta consisteva in un primo e in un secondo piano, in definitiva si trattava, con il pianterreno, di tre stanze sovrapposte e collegate tra loro da due scale di legno, ripide. Non c'era acqua corrente né elettricità. Da ragazzo tutto ciò mi andava a genio, logicamente a quarant'anni e con un bambino piccolo mi andò di traverso. 'Mai più e mai poi', avrebbe detto mia nonna, dopo un mese di convivenza con gli alternativi bolognesi e i loro tre bambini. Nel “67 e negli anni seguenti la Ridotta era ancora abitata da qualcuno, ricordo Adriana e suo marito Carlino, la madre di lei, Diomira, e un certo Gigetto, Gigèn in lingua “balzerotta”, che è una variante del romagnolo. Gigetto, che in effetti abitava a un trecento metri da noi in un altro abitato detto Ca' di Grama, era un simpatico piccolo e smilzo vecchio che si mostrava davvero contento e curioso quando salivamo alla Ridotta. C'intratteneva con il suo spirito e ci forniva qualche piccola prova di simpatia; chiamava la ragazza di Luciano, Daniela, Dianela, se non Dianella, e quando fu beccato dalla malattia definitiva lo andammo a trovare. Vedendone lo stato miserando non seppi trattenere le lacrime, cosa che impressionò i suoi famigliari e me ne guadagnò la stima. In realtà non avrei dovuto piangere; non si piange davanti a un poveraccio che sta per crepare. L'Adriana faceva parte della minoranza di lingua toscana, Carlino era invece romagnolo - non so quanto davvero fossero contenti della nostra presenza, in lei sentivo una certa untuosità, dopotutto eravamo due ragazzi e due ragazze non sposati che però dormivano insieme, comunque passammo un ultimo dell'anno nella loro stanza ben riscaldata dalla cucina economica e dal focolare, che loro sapevano far fruttare con abilità, non come noi cittadini coi nostri grandi fuochi effimeri. Radio a pile accesa. Avevamo nella mia futura moglie il personaggio lasciapassare tra quelle persone diffidenti della Ridotta e di Ca' di Grama. Lei era una insider, aveva trascorso spesso parte delle vacanze estive sul posto, la conoscevano, si ricordavano di sua nonna Margherita, o meglio Màrghera. Sennò quei “balzerotti” manifestavano ostilità per chi proveniva da fuori; chiamavano tutti “ippi” (hippies), se non “baccàni”, come una volta il capofamiglia di Ca' di Grama, Giuseppe, definì i nostri vicini bolognesi. Prima e unica volta che io abbia udito una forma così raffinata: da baccano, confusione suppongo inerente al dio pagano del vino. Dalla Ridotta, dove nei primi anni si arrivava da San Pellegrino a piedi per la via lunga di un castagneto o per una via breve e impervia, roba da giovani, si partiva ogni giorno per più o meno lunghe camminate che avevano come tappe i vari abitati, già allora deserti, su su fino alle Bastìe - bastione naturale, prati. I sentieri stavano già allora cedendo all'abbandono. Impressionante la Caròlla, una grossa costruzione che si trovava, al contrario delle altre, più verso il fiume Santerno, in un pianoro erboso; come tutte in pietra, era fatta secondo il metodo degli ampliamenti successivi - probabilmente corrispondenti all'accrescimento della famiglia che un tempo ci aveva vissuto. Con un po' di buona volontà sta Caròlla si sarebbe detta un castello rurale. Dall'altra parte della valle, quindi calando verso San Pellegrino e poi risalendo, si trovava un intero villaggio abbandonato che mi pare si chiamasse Brento (Brento Sanico, trovo in Internet). Tutti avevano lasciato le “balze”, pochi resistevano, ed eccoci all'Adriana, a Carlino, a Gigetto, a Giuseppe e alla sua famiglia. D'inverno faceva un gran freddo, per cui si dormiva nei sacchi a pelo vestiti, si beveva grappa e si arrostiva carne di maiale sulle braci. Dopo una settimana di quella vita tornavamo a Firenze alquanto abbrutiti, ma si era contenti. In estate una meraviglia, a parte la carenza di acqua, cosa che mi ha definitivamente indotto a farne uso oculato, sempre. Per dire: la ruspanza di Centi, rispetto a quella della Ridotta, faceva quasi ridere. A ben vedere il pregio principale di quelle villeggiature giovanili era la libertà dai nostri parenti stretti. Cresciuti, non ne abbiamo avuto più bisogno. Dal “74 i miei avevano preso in affitto un appartamento al Cinquale, che si trova a nord del Forte già in provincia di Massa, prossimo alla già celebre “linea gotica”. Per il Cinquale valgono le cose dette sopra circa Fiumetto: a parte il piccolissimo aeroporto e un porticciolo turistico. Nel “78 papà comprò un appartamento nuovo poco lontano dal primo, stavolta non a pianterreno, fattore decisivo al Cinquale, tazza d'acqua sempre pronta a traboccare. Luogo umidissimo. Non ci trascorse però neppure un giorno, infatti nel “79 gli presentò il conto la malattia definitiva che lo stava tormentando zitta zitta da mesi. L'appartamento, buono per quattro persone, non aveva pregi particolari, era distante dalla spiaggia un paio di chilometri e, se certo non aveva la vista sull'autostrada Sestri Levante-Livorno, vi aveva l'udito, per cui nel cuore della notte ecco che la quattro cilindri giapponese ti ricordava la tua posizione con il suo lungo boato. Spesso mi son detto che papà doveva aver bevuto troppo, al ristorante, quando quel pomeriggio della primavera del “78 si era fatto convincere a comprare quella casa. Eppure ci sono stato sempre bene, questa è la verità. Del mare di quei luoghi ho già detto, della spiaggia anche; per altro, rispetto a Fiumetto, il bagno al Cinquale è affoghereccio alquanto e non va bene per i bambini. Ora, se una nube galleggia in cielo a decine di chilometri di distanza dal Cinquale, puoi scommettere che verrà a spremercisi sopra. Attirata dal fascino delle Apuane, forse. Mai ci ho trascorso anche solo pochi giorni senza che piovesse, mai. E tuttavia, signori, il Cinquale ha dei pregi: le Apuane vicinissime, dove puoi scappare dalla vita insopportabile dei “bagni”, e il mare stesso, che, dopo il maltempo trascorso in casa, ti aspetta e ti libera, dopo congrua biciclettata, dalla gnagnera: con i suoi cavalloni, pericolosi ma decorativi al massimo. E il tempo, signori, il folle tempo che se non quattro ti sa presentare tre stagioni nello spazio di una giornata. Oro, argento, piombo. Al Cinquale, ebbene sì, non si dovrebbe andare in vacanza per i bagni: ci si dovrebbe abitare! E' una bestialità cui ho pensato, ma avendo da render conto a troppe persone, madre, fratello, moglie, figlio, non credo di averne neppure fatto parola. Quando ci arrivavo all'inizio della vacanza, in auto, da Montignoso o dal Forte, sentivo ogni volta di star entrando in qualcosa che sì mi era noto, ma per il momento mi restava estraneo, come una persona che conosci ma non stai frequentando da un anno. Di solito l'arrivo al Cinquale avveniva al termine della mattinata. Dall'auto calda vedevo le persone coperte di pochi abiti, i giovanissimi intenti a quel loro modo di procedere in bicicletta - chi la guidava e chi, in piedi sul portapacchi, si lasciava portare. Lo spettacolo dell'estate era in tranquillo svolgimento e noi, io, non eravamo ancora vestiti da mare. I vapori del mattino davano ancora a tutto un'aria opaca, restava difficile immaginare lo splendore sulla riva. Avevamo ancora da fermarci, scaricare i bagagli, sistemarci in casa. Per diventare abitanti del posto avremmo impiegato dei giorni. Questo in definitiva era il bello della vacanza al Cinquale, l'arrivo. Dopo il 1984, anno di nascita di mio figlio, mia madre al Cinquale passava il Luglio, noi l'Agosto, o viceversa - a mio fratello e ai suoi il posto non interessava. Ci alternavamo tra Centi e il Cinquale; non ricordo perché la turnazione smise di funzionare, io comunque ero incapace di convivere per settimane, per giorni, con mia madre, né qua né là; quindi dal “91 iniziai a cercare nuove possibilità in Maremma, addirittura a pochi chilometri da Centi, ribadendo la mescolanza di villeggiatura e bagni, per me ottima, ma stavolta, come dire? - a mio carico. Tre volte abbiamo scelto Gavorrano, tre volte Sticciano, fino al “98, ultimo anno di mia dedizione totale alla famiglia e termine temporale da me fissato per questo resoconto. Nel “91 presi in affitto una casetta isolata sotto Rocca Tederighi, a solo una decina di chilometri da Centi, e nel “96, ecco ecco, ci fu l'ultimo godimento delle grazie del Cinquale, più che altro dovuto a miei indugi, quella primavera, nel sobbarcarmi la ricerca d'una casa in Maremma. La casetta sotto la Rocca aveva attorno una specie di giardino, grande e comunque ottimo per tirarci su una tenda che mio figlio, sette anni, riempì di giornalini, libri illustrati, giochi - e con qualche “pupazzino”. All'esterno un tavolo in pietra che una volta era stato una ruota da frantoio, vedi alla voce Kitsch, ci serviva per la cena; all'interno c'era una piccola stanza da letto, il bagno e un grande ambiente che faceva da soggiorno e da cucina. Direi che la casa era stata “ristrutturata” per celebrarci solo crapule. Ogni mattina salivo in paese, compravo uno o due giornali, gustavo la parlata maremmana libero da coinvolgimenti pluridecennali, facevo un po' di spesa aggiuntiva a quelle massicce alla Coop, poi tornavo giù e gustavo la “doccia ginostrese” in giardino; leggevo giornali, libri. In effetti il luogo era abbastanza in basso, rispetto al paese, stava appena sopra la pianura, e dalle undici di mattina iniziava a fare un gran caldo, campagnolo, secco e salubre, ma sempre caldo. Nel pomeriggio andavamo al mare. Bello come sempre tornare in collina, la sera. Gli odori iniziano a rinfrescare l'aria. E viceversa. La mattina veniva a lavorare nel suo “campo” un uomo sui sessant'anni, Vanzo. Portava un bel berretto di cencio candido. Guidava, anzi “mandava” il suo bravo trattore. Che è il motorino dei vecchi, in campagna. Insieme all'Ape. Non gli domandai notizie sul suo nome, che logicamente mi faceva pensare a Bartolomeo Vanzetti. Il proprietario aveva invece il soprannome di Pennello. Vanzo non era un contemporaneo, Pennello sì. Il penultimo giorno della vacanza passai a salutare la pizzicagnola dove m'ero fermato quasi ogni giorno - uscì da dietro il banco e mi baciò. Rimasi di stucco: a Centi, decenni e nessun bacio, lì un mesetto ed eccomi abbracciato e baciato. Certo, ero un appassionato di prosciutto crudo. Ebbi da riflettere in merito all'ottima cosa che è lo “svolpare”, come dicono da quelle parti, dal solito al nuovo. Baci e abbracci a parte era troppo caldo, lì da Pennello, quindi l'anno dopo presi un appartamentino dentro Gavorrano. Gabura, così la tipa dell'agenzia immobiliare. Che mi regalò, al terzo “contratto”, un acquerello dipinto da una sua cliente tedesca: Ponte Vecchio. Gavorrano, un paese non molto elevato sulla pianura e abbastanza prossimo al mare, assai meno piccolo di Centi, possiede la sua brava casba. Vi trovai nel “92 una casa sufficiente per noi tre, ma non mi ricordo nulla. Apparteneva a una famiglia di svedesi. Ne avevano un'altra che ci toccò l'anno dopo. Questa era piuttosto grande e disponeva di un balcone aperto sulla valle dalla parte della vecchia miniera, non solo: anche di una piccola scorta di libri. Era arredata, inoltre, non in modo stereotipato. Bagno però lillipuziano. L'acqua scarseggiava. Mio figlio ebbe la sua camera, grande, su un vicolo della casba animato da donnine del posto assai ciarliere cui lanciava per protesta foglietti di carta dalla finestra. Ci definirono “napoletani”, quelle nobildonne. Ebbi in compenso qualche conversazione con un pensionato gavorranese da me soprannominato Ezechiele - mi faceva pensare al lupo disneyano. Abitava in un vicolo sopra il nostro. La prima sera, dopo essere stati a cena fuori, non si ritrovava la strada, o meglio il budello, di nostra pertinenza. Ezechiele prendeva il fresco seduto davanti a casa sua, ci vide e c'indicò la direzione giusta nel dedalo. 'Sa dove abitiamo?' - gli chiesi. 'Ma certo!' - rispose lui. L'anno successivo prendemmo casa subito sotto il paese in un buon appartamento rinnovato che aveva una terrazza grande da farci ballare una ventina di persone. Peccato che accanto abitasse una famiglia il cui capo era appassionato di cani, husky. Ne aveva quattro o cinque. Una volta vedendoli tutti insieme seduti sulle zampe posteriori e disposti a livelli diversi del terreno pensai al sogno che a Freud raccontò il cosiddetto “uomo dei lupi”. Appena installati, feci un salto nella casba per vedere il mio amico Ezechiele. Lo trovai e lo salutai allegro. Lui s'indicò con l'indice della destra il foro che aveva nella gola e capii che era stato operato - non aveva più la possibilità di raccontarmi i suoi punti di vista, per esempio sugli incendi, prodotto locale fiorente, o sul passato fascista della Casa del Popolo. Era un non conformista. Rimasi basito, l'anno prima aveva avuto spirito per due. Volli fare anche l'esperienza, non so più in quale di queste tre occasioni gavorranesi, di farmi tagliare i capelli da un barbiere di paese, che si chiamava Liparioti. Ricordo solo che gli parlai del suo cognome dimenticando che uno può chiamarsi Liparioti e non essere mai stato nell'isola. O mi limitai a pensarlo, forse. Notevole il Bar Cinelli, posto pubblico telefonico e covo “viola” in terra di “gobbi” a strisce: soprattutto ritrovo per appassionati di biliardo. Non consigliabile attraversarne la sala di primo mattino, quando ancora non sono state aperte le finestre all'aria. In poche decine di minuti si scendeva al mare, nel pomeriggio, magari fino a Cala Violina, più facilmente fino a Casetta Civinini. Spesso andavamo a cena nell'area della festa de L'Unità, dove mio figlio si era invaghito dei “tortelloni maremmani”. In definitiva Gavorrano ha per me qualcosa di sgraziato, questo non posso negarlo, forse perché non è più Centi né ancora Massa Marittima. Quasi mi dimenticavo: una sera stavamo assistendo allo spettacolo offerto, grazie al Comune, sul sagrato della piccola chiesa interna alla casba da due attori di strada, un giovane e una ragazza. Non so più di che cosa si trattasse, certo non mancava di qualche sensualità, almeno a occhi attenti alle grazie femminili. A un tratto il portone della chiesa si aprì e ne sbucò un prete, imponente. Costui dette una nuova impronta allo spettacolo dichiarando, nel silenzio delle poche decine di spettatori, che “ciò” non era degno di essere agito sul sagrato. I due attori-mimi dopo un attimo si trasferirono dal sagrato nella piazzetta rovesciando l'assetto della rappresentazione: ora noi spettatori eravamo sui gradini e sul sagrato, al posto loro. Il prete era rientrato. Probabile che a quegli attori-mini non fosse mai capitata un'occasione teatrale così buona. Una mattina dell'agosto “94 sbucai da una macchia trovata ai piedi di non so quale collina vicina al mare e al cosiddetto Montelattaia - ero in moto e tentavo di perdermi con giudizio. In alto vidi un villaggio. Ci arrivai, era Sticciano. Fu un colpo di fulmine. Tornai a visitarlo in macchina con mia moglie, un pomeriggio. Mio figlio doveva esser rimasto a giocare con un'amica a Gavorrano. Mi parve in effetti un po' troppo colonizzato da villeggianti e privo di residenti veri, sembrava Ginostra, tanto da farmi sentire indiscreto nel transitare nei vicoli accanto a palesi cittadini che si godevano, anche spudoratamente, la loro vacanza; ma mi piacque la sua piccolezza, la luce vivissima, l'eleganza. Aveva la grazia e l'improbabilità di un villaggio creato da un bambino. Può darsi che in quell'occasione abbia copiato un numero telefonico da un “affittasi”. Sta di fatto che nel “95 presi un appartamento dal 15 di Luglio alla fine di Agosto. Faceva parte di una antica costruzione restaurata, proprietà di un commerciante lombardo sposato con una del posto, bionda, alta e magra - pareva tedesca. Un entusiasta di Sticciano. Noi avemmo a pianterreno una cucina, un bagno, una stanza da letto, di sopra un'altra stanza. Afosa. Mio figlio ebbe la prima, con la tv, noi la seconda. A me, abituato fin da bambino alle “travi a vista”, alle arcaicità del “castello” di Centi, ai pavimenti di mattoni (detti untuosamente “cotto”), ai profumi della macchia, ai tramonti, tutte le squisitezze del “rustico” fanno il classico baffo, ma capisco che la luce della Maremma e il suo sapore, racchiuso da mura e pareti vecchie di secoli, possono fare ai novizi impressione. Dal villaggio dei Puffi si scendeva allo scalo ferroviario sottostante, lunga passeggiata, per la spesa, per il giornale, per telefonare. La risalita non era breve, per cui l'acquisto della stampa, delle sigarette eccetera finì presto per diventare una breve gita in auto. Da dietro il cimitero, appena sotto il paese, partivano due percorsi, uno piuttosto affondato nella macchia, l'altro più esposto al panorama. Quest'ultimo mi accolse quando volli sfuggire alla festa del santo locale. Nel “97 lasciammo l'appartamento dell'entusiasta, non ricordo perché, e ne prendemmo un altro, ancora diviso in pianterreno e primo piano. Forse meno caldo dell'altro. Ogni sera bagnavo il terreno che c'era attorno schizzando acqua da un lungo tubo di gomma, divertimento piacevolissimo. Di mattina piazzavo un tavolino all'esterno della casa, di faccia alle colline, e scrivevo usando il computer, allora per me una novità. Con il “98, ripeto, posi termine alla mia dedizione totale estiva alla famiglia, anche perché quell'anno ci eravamo trasferiti all'Impruneta, a due passi da Firenze, e smise di mordermi la voglia di scappare. I sette anni all'Impruneta forse sono stati una villeggiatura, la più lunga della mia vita e certo non la peggiore.

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