Perdersi

Fa molto caldo, di notte si dorme a rate, blocchetti di acqua - ghiacciata nel reparto più vigoroso del frigo - si staccano dalla parete interna della bottiglia che sta da ore sul comodino e fanno un rumore non privo di dolcezza, ma sinistro: cos'è? Oh, certo, certo, mi rispondo rassicurato. Scrivere in queste mattine di Luglio non è facilissimo.


Lungo il “corso” che abbraccia come una serpe il villaggio fu allestita in un pomeriggio d'estate una rivendita di gelati entro un “fondo” mai prima né dopo adibito a tal uso. Una “gelateria” in quel misero villaggio isolato, da dove non si transitava che per sbaglio, dove si arrivava solo deliberatamente: che cosa straordinaria! Sarà stata domenica. Davanti al banco e fuori, nella strada, decine di persone aspettavano il loro turno, se non sostavano incuriosite, e io osservavo da dietro, più colpito dalla novità che non voglioso di gelato. Prevale ora nella scena ricordata un che di chiaro, se non proprio di bianco.


Una “gelateria” improvvisata. Modi spicci, schietti diciamo, molto alla buona, come tutto quanto era del villaggio.

Osservavo da dietro e dal basso, infatti ero un bambino. E perché mai ci si ricordano scene del genere? Verrebbe voglia di pensare che si tratti come di ritagli infilati a caso in un libro, congrui sì, ma senza corrispondenze nella pagina invano percorsa.


Il villaggio era e sarebbe rimasto privo di una “gelateria”, ma, mi domando, nei due ritrovi, uno centrale e privato, sede però di posto telefonico pubblico, l'altro quasi nascosto in fondo all'abitato, in basso, oltre una piazzetta e gestito da qualcuno in nome dell'Enal (“ente nazionale assistenza lavoratori”), saranno stati messi in vendita gelati? Non lo so. Non so quasi niente del commercio che si faceva in quel povero villaggio separato dal mondo, nei primi anni cinquanta. Due negozi di alimentari sfamavano quotidianamente famiglie che pagavano a fine mese la loro spesa registrata su un libretto. Uno era privato, in alto, di fronte al “castello”. L'altro era la cosiddetta coperativa, non ancora Coop. Giù in “fondo piazza”. Due macellerie corrispondevano ai due negozi di alimentari e generi casalinghi. C'era un solo forno.


Stavo alle spalle dei curiosi di gelato perché qualcuno, certo la nonna, si occupava di comprarmene uno, forse, perché non mi piaceva infilarmi tra loro, non mi andava di farmi sotto? In compenso guardavo.


In città, una delle prime volte che sono stato al cinema accompagnato dalla nostra ragazza di servizio a vedere un “Don Camillo”, ebbi un'esperienza, simile a quella della “gelateria”, davanti alla cassa, nell'atrio del cinema. Ero piccolo e vedevo gambe di compratori di biglietti per lo spettacolo, stavo dietro e in basso. I clienti si stringevano davanti alla cassa. La nostra ragazza si dava da fare per comprare i biglietti, ammesso che io fossi in età da pagarne uno. Forse comprava solo il suo. E nemmeno stavolta so perché diavolo me ne ricordi. L'atrio era angusto. Doveva essere un cinemino parrocchiale. Ma forse qui giocava un fattore che nel villaggio mancava: la pauretta di perdere la mia accompagnatrice, di perdermi, né so se sarei stato capace di far ritorno da solo fino a casa, che era piuttosto lontana dal cinema. Certamente no.

La Rina comprò il biglietto, o i biglietti, e vedemmo il film, che riportava scene del dopo alluvione nel Polesine, se non mi sbaglio e si trattava invece di un “cinegiornale”. L'alluvione risale al 1951. E' un terminus post. Avevo dunque più di quattro anni.


Qui il mio stare dietro dipende dalla necessità. La ragazza avrà preferito risparmiarmi la calca? Sospettoso di perderla di vista, osservavo. Nella scena della “gelateria” del villaggio sono invece padrone di osservare a mio agio, incuriosito. Piena la luce.


Come in una terza scena: sono in una piazza piuttosto grande dove si è allestito un luna park. Dista un po' da casa, ma quale casa? Quella abitata fino al 1954, abbastanza vicina alla piazza, o quella abitata dopo, piuttosto lontana?

Quanti anni avevo? Ero solo? Non credo proprio. Ma con chi ero? Su un palco due donne carnose poco vestite e in lustrini - azzardo un color turchese per i costumi - si esibivano contorcendosi ognuna con il suo bravo pitone! Davanti al palco una piccola folla. E io dietro. Era trascorso qualche anno, ma osservavo l'esibizione ignaro d'ogni malizia connessavi. Il mio modo di partecipare. Quest'ultimo è un ritaglio della memoria che non pone quesiti, si spiega da solo.


A proposito del timore di “perdermi”: nei fine settimana andavamo talvolta sulla costa a trovare certi parenti. Era tipico fare tutti insieme una passeggiata lungo la via che nel capoluogo scorre diritta “lungomare” - era ed è piena di vetrine. Capitava che io, attratto dalla visione di alcune merci, soprattutto giocattoli, mi fermassi a guardare desideroso e incuriosito, intanto che i miei continuavano a camminare. Per cui, interrotta l'estasi dello sguardo, o meglio forse risvegliatomi da quei momenti di fusione con gli oggetti in vetrina, scoprivo di essere rimasto solo tra la folla in movimento. Dov'erano mio padre, mia madre, la nonna, la zia, mio fratello? Qual era il verso della nostra passeggiata? Correvo in direzione sud, tornavo subito deluso verso nord, niente. Disorientato, sì. Perduto. Mi sentivo perduto. Durava poche decine di secondi, poi ritrovavo i miei, se non mi ritrovavano loro, e rientravo definitivamente in me.


Nella tarda serata della domenica tornavamo nella nostra città, che dista un cento chilometri dalla costa, in automobile. Nel buio scorgevo in lontananza una o più sagome di chiese, anzi chiesine, punteggiate da luci gialle, intanto che la macchina percorreva l'autostrada. Incantevoli, ma io mi trovavo troppo stretto tra i miei, per goderne. In “passeggiata”: troppo libero; ora: troppo preso.

Una volta, assopito, mi svegliò estranea e paurosa, una voce alterata di uomo che imprecava esplosiva. Mi sembrò che venisse da dietro la mia testa, come se alle spalle della nostra automobile un altoparlante ce l'avesse con – chi? Con mio padre? Dopo un attimo compresi che era proprio lui ad aver imprecato contro un altro guidatore, e che un qualche scherzo acustico creato dal mio assopimento aveva reso estranea la sua voce.


Diversi decenni dopo, mentre in un luna park assistevo ai passaggi di mio figlio piccolo che era montato sul piccolo vagone di un trenino somigliante a un bruco, a un tratto non lo vidi più. Ebbi per qualche decina di secondi l'orribile sensazione che lui fosse sparito, insomma ebbi paura di averlo perduto in quel modesto marasma di umani e di oggetti. Di “attrazioni”, come diceva lui, usando un'espressione troppo appropriata e quindi un po' comica sulla bocca di un bambino. Non era perduto, avevo solo perso io di vista il suo vagone.


La paura di perdermi l'ho provata in campagna diverse volte dopo essere sceso in un avvallamento del bosco, della “macchia”. Il mio villaggio non si vedeva più. Ci sono stati casi anche comici, dopotutto. Per uscire dall'imprevista difficoltà ogni volta ho dovuto camminare e camminare, graffiarmi nel folto, inebetirmi sotto il sole di Luglio. Oppure, dopo aver compreso di aver svoltato a sinistra invece che a destra, di aver sbagliato vigna, aggiungere un'ulteriore passeggiata, autunnale, ansiosa, serale, fino a buio. Trovati finalmente l'asfalto, e poi la direzione giusta, tornai a casa dopo ore. Questi ultimi due casi avvennero in una campagna per me nuova e sottovalutata proprio perché meno “selvatica” di quella che circondava il villaggio da cui iniziano queste note. Che potrebbero a loro volta perdersi alla ricerca di qualche significato generale e astratto inerente la mia persona.






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