Disincanto

Nella parte più alta del villaggio collinare occupa non poco spazio un vecchio edificio che tutti chiamano “il castello”. In effetti lo impennacchia una torre dalla cui terrazza senza troppa fatica si scorge il mare, un'isola, e, certe sere, il brano settentrionale di una seconda isola che prepotente spunta dietro la prima. Cos' altro si vede? La pianura, fin quasi al capoluogo. Una gran porta ad arco fa da ingresso “monumentale” all'edificio. Da una porta, sempre ad arco, piccola, percorribile solo a piedi grazie alla presenza di scalini, si passa dall'area del castello, oggi suddiviso tra numerosi proprietari, anche cosmopoliti, al villaggio. Visto dall'alto nelle vecchie cartoline, ma oggi valutabile tramite l'occhio di eventuali “droni”, il castello è coperto da un normale tetto di tegole. Due i suoi bracci rossastri, che s'incontrano in un quadrato grigio chiaro: la terrazza sulla torre.


Nato in pieno inverno, già nel mese di Giugno la nonna, desiderosa anche di respirare la famosa aria buona della collina, mi portò con sé in questo cosiddetto castello. Così i miei giovani genitori si riposarono per qualche settimana dalle fatiche che sempre dà un neonato, felicitato per parte sua dalle poppe di due donne del villaggio, madri di una bambina e di un bambino che dal villaggio, non appena possibile, fuggirono in cerca di lavoro, salario e cose del genere. Teresa e Gino; bruna lei e bella, occhi celesti; biondiccio e bruttino lui, tanto che lo avrebbero soprannominato “Scelba” – un famoso uomo politico democristiano, ai tempi, presidente del consiglio e ministro degli affari interni. Come si potesse chiamare “Scelba” un bambino è una domanda che rinvia allo spirito del castello e del villaggio. Non ho più visto Gino da almeno cinquanta anni: mi pare di intravvedere un naso un po' lungo e un po' storto. Tutto qui. Le mie due balie, che mi dettero quel latte in città sostituito da polveri non facilissime da trovare, nel dopoguerra, erano belle: la madre di Teresa abitava un po' fuori dal villaggio, in una casa circondata da pini; la madre di Gino era meno bella, ma piuttosto fiera, se non ferina. Abitava a pochi metri dalla chiesa, nel villaggio, e come tutti, tranne forse il parroco, bestemmiava. Che tutti bestemmiassero il Padre, il Figlio e la Vergine Maria è un'indiscrezione geografico-regionale che mi concedo solo perché la bestemmia in sé è già un'indiscrezione.


La nonna in teoria era la “castellana” - alla sua famiglia è intitolato il vicolo che entra nel castello dalla porta grande e finisce dov'è la piccola. La castellana, basta così con le virgolette, possedeva oramai solo poche stanze, per l'esattezza una sala, due camere da letto, una cucina e un gabinetto. Nella sala si trovava un camino incorniciato di marmo, un'ottomana, un tavolo con le zampe intarsiate, delle sedie, un paio di cassettoni intarsiati anche loro e sormontati da vetrine, una poltrona di legno imbottita e una libreria di forse sei metri quadrati, non piccola, ma agli occhi di un bambino addirittura grandiosa, con sportelli a vetri e com'è naturale piena di libri, libretti, calepini, libroni di ogni genere, appartenuti al versatile padre della nonna, un docente non saprei di quale ordine scolastico né di quale disciplina, che aveva fatto l'università non dico dove. Era nato nel 1856. Non in quella libreria si trovava l'erbario del bisnonno, come ora stavo per spropositare, infatti esso giaceva dentro un cassone in una stanza sotto la torre, anzi “sottotorre”, come avremmo scoperto attorno al 195x quando la nonna rientrò, se non in possesso, almeno in carica di affittuaria dell'ala della casa esposta verso la pianura, appartenente al di lei fratello, la migliore. Scoprimmo quest'erbario, anzi, fu la nonna a riscoprirlo. Sfortunatamente la botanica non sarebbe mai stata una mia passione. Andavo per altro d'accordo con la nonna e in un caso “collaborai” al riordino della libreria di suo padre seguendo le indicazioni da lui scritte su un catalogo. Doveva essere stato un uomo paziente. Direi che un po' mi assomigliava, non tanto nella pazienza, quanto nel volto. Qualora mi facessi crescere i baffi sarei all'incirca il suo ritratto.


Il 195x o giù di lì fu un anno importante per la nostra vita al castello, che, è ovvio, durava i mesi estivi soltanto, mentre trascorrevamo gli altri variamente indaffarati in città, non voglio dire quale perché qui si tratta soltanto del castello e del villaggio. La nonna scambiò l'appartamentino di cui ho detto poco e nulla con l'appartamento contiguo, grande, ovvero: i pigionanti vennero ad abitare dove eravamo stati noi e noi andammo al posto loro. Precorrendo: nel 197x la nonna avrebbe avuto il controllo, se non la proprietà, di entrambi gli appartamenti, collegati da un corridoio detto “ingressino”: ambiente che da piccolo avevo sempre percepito come estraneo, fatta una rampa di scale. Stanco e ben poco “felice” dopo un viaggio in treno, coincidenza inclusa e tratta finale in automobile a noleggio con un tanghero di conducente. Minimo tre ore che a me sembravano sei. E non mi rallegrava quel silenzio del castello, né quell'odore chiuso di otto mesi e appena per poche ore, su incarico telefonico della nonna, fatto arieggiare prima che arrivassimo noi, cioè la signora maestra e il nipotino.


Ho trascorso anni, sommando insieme i pezzi di estate, di vacanze pasquali e natalizie, nel castello, nel villaggio, su e giù, tra il 194x e il 199x, ma com'è naturale non ci sono stato sempre a mio agio, no. La relativa ruspanza dell'arredamento ottocentesco delle stanze della nonna, dell'arredamento delle stanze di suo fratello, il confronto nei due sensi spietato tra l'ambiente piccolo-borghese della casa dove abitavamo in città e quelle stanze alte, travi in vista, muri spessi, il silenzio del primo pomeriggio, non so, tutto mi rendeva infelice. Mio figlio una volta ha detto che il castello è cupo. I letti di ferro dipinti di nero, altissimi, ornati gli scudi ovali, in cima e in fondo, di paesaggi crepuscolari, lacustri forse, mi stranivano. Quiete mortale, solitudine. C'era la nonna sì, ma non la presenza di mio padre, di mia madre, più tardi di mio fratello, la presenza della Rina, una ragazza a nostro servizio in città: tutto questo mi rendeva infelice.


Ci si affeziona anche all'infelicità, dopotutto, ed ecco qui una scoperta: quando affermo di avere il castello e il villaggio “nel cuore” per giustificare non richiesto da alcuno la mia assenza ormai pluridecennale, io in quello stesso cuore includo le spine. Servivano giorni, se non ai miei sensibili polmoni al naso, perché mi abituassi all'odore della muffa. Dopo pranzo la nonna mi costringeva a fare la nanna... Non sto più raccontando dei primi soggiorni nel castello, quando la mia infelicità era tutta quanta nascosta, infante. Mi costringeva ad andare a letto forse per avermi sotto controllo. Non dovevo mescolarmi con i coetanei o non coetanei che pullulavano nel vicolo intitolato alla famiglia della nonna, comunque lei si sentiva più tranquilla se mi aveva vicino nel suo letto, o in un letto vicino. Il silenzio, impensabile per chi è cittadino, poi negli anni sessanta settanta ottanta rimpianto, quando ero bambino mi opprimeva.


Un pomeriggio uscii mentre la nonna dormiva, o fingeva - comunque non mugolava da far paura come certe notti da brivido, sbucai nell' “ingressino” e incontrai un certo Stefano, poco più grande di me. Mi invitò in casa sua, quella che dal 195x sarebbe diventata “nostra”, nell'enorme cucina: c'era un caminetto grande, in fondo una finestra che guardava verso la pianura e i resti lontani di un altro castello. Senza dire una parola Stefano, che avrei rivisto solo negli anni ottanta armato di una grossa berlina tedesca lucidissima e nera, m'invitò “sottotorre”. Era ed è rimasto, a quanto mi ricordo, uno stanzone poco illuminato da un finestrino aperto nella porta pesante di un minimo balcone che si potrebbe chiamare, forse, “verone”, chissà ... Ci avrei passato la prima e rarissima notte insonne, molti anni dopo, seduto dietro la ringhiera a guardare il cielo stellato. Il padre di Stefano teneva in quello stanzone una riserva di legna per l'inverno e per la “cucina economica”. Tra due mucchi di tronchi tagliati si era addormentato sul pavimento fatto di mattoni - mattoni, mi raccomando, non “cotto”, una parola venuta dopo molti anni. Indossava un paio di larghi calzoni, pesanti scarpe e una canottiera. Grigio l'insieme. Accanto aveva un fiasco impagliato contenente non saprei che liquido. Acqua? Mah! Il vino che si beveva al castello e nel villaggio era comunque pessimo.

Dormiva come un ciocco, è il caso di precisare. Vicino al fiasco sul pavimento c'era un “pennato”, ovvero una roncola. Stefano lo raccolse e iniziò a dare spettacolo. Faceva smorfie assassine vagamente ridicole, ma roteava l'arnese al di sopra del corpo addormentato di suo padre, che, se si fosse svegliato, lo avrebbe caricato di botte. Tutta quanta la scena si svolse in silenzio totale. Io, che in fondo amavo alquanto mio padre nonostante che non fosse uno stinco di santo e che talvolta mi allungasse un ceffone, ebbi semplicemente paura che il padre di Stefano si svegliasse e me ne uscii subito dallo stanzone “sottotorre”, trascorsi la cucina, sbucai nell' “ingressino” e tornai in casa mia. Mi rimisi buono buono a letto?

La nonna non aveva tutti i torti a volermi tenere in casa, d'altra parte la scena offerta da Stefano era di quelle che meritano una piccola trasgressione.


Né al castello né entro il villaggio “erano rose e fiori”, la miseria credo che fosse “nera”. I genitori poveri e forse affamati del castello, del villaggio, maltrattavano i figli, li picchiavano, cacciavano urla tremende, bestemmiavano - era la loro punteggiatura - li rincorrevano per i vicoli. I mariti picchiavano le mogli? Non erano donne disarmate. Le mamme picchiavano i figli, tutti picchiavano tutti, anche i cani e i gatti prendevano più calci che avanzi commestibili: i maiali invece erano tenuti prigionieri fuori dal villaggio, dove inizia la campagna, in certe gabbie luride e sbilenche dette “castri”, prima di entrare in autunno nell'epopea dei salumi. Stefano avrà odiato suo padre e insieme avrà voluto mostrare a me, bambino di città, che razza di coraggio aveva.


Tra noi cittadini in vacanza e la maggioranza degli abitanti del castello e del villaggio c'erano molti gradini sociali ed economici di distanza. I ragazzi del posto cercavano di colmarli con la loro superiorità di combattenti figli di minatori e di donne che a quarant'anni ne mostravano sessanta. E gridavano come aquile per chiamarli a casa.

La nonna, arrivato il cosiddetto benessere - in ritardo - anche al castello e nel villaggio, che non sono né erano la stessa cosa ma anche sì, in definitiva - arrivato il benessere, le tv, gli elettrodomestici, le automobili e tutto il resto, rimase spiazzata dalla diminuzione della distanza in gradini economici tra lei, tra noi e i paesani. La indispettiva. D'altro canto lei era dell'altro secolo e tutt'altro che “consumista”, anche questo è vero. E il “consumismo” dei paesani lei lo vedeva crescere da vicino, anno dopo anno. Un intreccio di invidie animava così il castello e il villaggio. I locali si invidiavano a vicenda e invidiavano noi: una notte qualcuno pisciò sulla Giulietta sprint di mio padre, parcheggiata “sotto l'arco”, come si chiama il passaggio che dalla porta grande del castello mena in una piazzetta larga un centinaio di metri quadrati scarsi.


Quelli del castello erano come nostri stretti “parenti poveri”, quelli del villaggio erano come parenti poveri anch'essi, ma alla lontana - pochi gli estranei. Il castello e il villaggio in piena estate si riempivano di pochi villeggianti e di emigrati che tornavano in ferie a parlare la lingua madre, diciamo così, e a mostrare la Simca Versailles. In inverno stentavano in loco solo poche centinaia di persone. Dopo la chiusura progressiva delle miniere, assassine e fattrici di silicosi, il castello e il villaggio si erano svuotati. All'alba gli abitanti andavano a decine di chilometri lontano a lavorare, fin sulla costa. In corriera, qualcuno in motoretta. Gli emigrati si dividevano tra chi si era spinto in Belgio e chi si era fermato in Italia settentrionale. Ma qualcuno aveva trovato lavoro anche nella regione. Facevano i minatori, i muratori, gli operai di fabbrica. I camerieri, le donne di servizio. Del resto non ne so abbastanza. Sono incompetente. Ero figlio di un avvocato, in fondo so solo questo. La nonna, la cosiddetta castellana, aveva fatto per almeno trent'anni la maestra. Nostra madre si era occupata della casa e della famiglia, non solo di fare “la moglie dell'avvocato”, come avrebbe detto maligna una nostra cara coetanea diversi decenni dopo.

Come opportunità “sociale” il castello e il villaggio non erano gran cosa, per noi bambini di città: dopotutto però trascorrevamo il resto dell'anno in luoghi dove la “società” non era infima come quella del castello e del villaggio. Tutt'altro.

Facevo però comunella con parecchi coetanei o quasi coetanei del castello e del villaggio, ci si ritrovava ogni estate. Ero di casa non solo al castello, ma anche nel villaggio, tutti sapevano chi ero e “di chi” ero. “Di chi sei?” - chiedevano gli adulti ai ragazzini sconosciuti o comunque apparentemente nuovi, magari scesi dal Belgio a bordo di una Simca Versailles. Di chi sei? Io ero il nipote della “signora maestra”, per il vero non la sola nel villaggio, dotato di una scuola elementare. Ero nipote della signora maestra del castello, l'unica.

Facevo parte non solo del castello e dei suoi “saloni”, come beffardo mi disse una volta un compagno, ma anche del villaggio. Ne ho una prova eccellente. Ero sbucato, da un sentiero della campagna che stringe da ogni lato il villaggio, nella strada principale, il “corso”: doveva essere una tarda mattinata e non mancava gente. Un mio compagno da una finestra lanciò a suo padre, che si trovava in strada, una chiave. Il vecchio non la trovava, esitava chino, e allora il figlio gli gridò: “non la vedi? E' lì dov'è …!” e fece il mio nome. Traduco dal vernacolo locale. Ero un punto di riferimento, per dir così. Oramai non sono un punto di riferimento nel villaggio e neppure al castello. Pochi anziani mi riconoscerebbero. Ho voltato le spalle a entrambi, per questo posso scriverne. Nessuno mi ha costretto, nulla, a voltare le spalle al castello e al villaggio, ciò è avvenuto da sé. Certo è servito “l'attentato di Sarajevo”, la scintilla. Ma tutto era già pronto.


Data la scarsa “società” del castello, della cittadella per dir meglio e stavolta soltanto, e del villaggio, era inevitabile che io facessi conoscenza con il mio primo tormento amoroso, anche lei cittadina, nativa però della capitale, dotata di radici nel villaggio, non nel castello. Inevitabile. Eravamo troppo poco numerosi villeggianti nel 195x, quando una mattina noi c'incontrammo nell'unico locale del villaggio che faceva da posto pubblico telefonico, da bigliardo. Diciamo “al bar” e facciamola finita.


Coi compagni giocavo a pallone in strada, potevano passare delle mezze ore tra un passaggio d'auto e l'altro; o a carte su certi muretti che fiancheggiano la porta d'ingresso della scuola, nella parte alta del villaggio. O si chiacchierava di questo, di quello - di calcio. Erano per lo più “juventini”. Qualche volta si calava nel cuore del villaggio che usavamo per giocare a nascondino attorno alla piazza della chiesa. Molti erano i nascondigli, gli anfratti, i budelli, i vicoli - fetidi. Vera amicizia con questi compagni non c'era, io restavo un “ricco” del capoluogo di regione, dove si “mangian fagioli e si leccan piatti e tovaglioli”. Più per la comodità della rima che per altri strani motivi. Nessuno lecca tovaglioli, nella vita vera.

E mio padre si avvicinava al villaggio, di sabato, iniziando a strombazzare dall'auto decine di curve prima della sua apparizione, salvifica ai fini del sistema nervoso di mia madre. Forse rompeva l'anima a qualcuno, sia del castello sia del villaggio, dove al massimo si possedeva una motoretta e, come segnalato, la miseria era “nera”, magari con qualche sfumatura verde, data dal possesso che ogni famiglia aveva di un “campo”, ovvero di un orto anche distante dal villaggio, utilissimo a fornire la tavola di verdure, di pomodori, di violacee melanzane. Di frutta. Di fichi, di fiori di zucca. Qualche abitante del castello, se non del villaggio, omaggiava la nonna e in definitiva noi tutti con qualche prodotto del proprio “campo”. Bussava, entrava e talvolta si schermiva affermando che ci recava quei doni in natura che altrimenti sarebbero andati “al maiale” ! Significando in modo brutale che non stava togliendoli alla propria modesta economia domestica e famigliare. Alle sue spalle, una volta che il donatore o la donatrice se n'erano andati, noi ridevamo agri.

Mio padre rompeva a molti l'anima, congetturo, con quell'Alfa Romeo blu sportiva, come l'aveva dovuta rompere con le varie precedenti berline. Comunque io in silenzio deprecavo questi chicchirichì che il mio amatissimo padre, un ragazzo, elargiva al mondo.

Che fosse “amatissimo” lo avrei scoperto molto tardi quando, sui sessant'anni, si ammalò e, dopo un'agonia di mesi, morì scheletricamente ammutolito. “Amatissimo”: è una provocazione che tento ai miei danni, per così dire. Comunque con il castello e con il villaggio mio padre ebbe sempre poco a che fare, restando un estraneo al quadrato, infatti non era originario neppure della nostra regione.


Come calciatore ero scarso, tanto che al momento delle “scelte” venivo associato a una delle squadre per far numero. “Con x siamo del gatto!” - disse una volta il “capitano” della squadra che non aveva potuto evitarmi. Essere del gatto rimanda, si capisce, alla condizione tragica dell'animaletto caduto in preda della bestiaccia. A nascondino ero bravo, invece. I compagni del villaggio e del castello erano tutti più veloci di me, più forti e più abili coi pugni. E' un miracolo se non ne ho mai buscate. Un compagno che abitava appena fuori dal villaggio, presso una fonte dotata di vasca per far abbeverare quadrupedi, un'estate mi prese a benvolere specialmente e in un caso mi bersagliò di sassate, proprio sotto le finestre del castello. Prode, mi ero riparato però dietro un terrapieno, e mi salvai. Dopo qualche decennio ci incontrammo di nuovo, lui tornava nel villaggio per passarvi le ferie. Aveva trovato lavoro in un paesone della regione, a metà strada tra il capoluogo e il villaggio. Era stato un valido calciatore dilettante e aveva per questo acquisito un certo nome locale. Strano che ritrovarsi da adulti sia stato simpatico. In dosi minime s'intende.

Di ragazzine coetanee nel villaggio ce n'erano, è naturale, ma io non le ho mai avute per amiche, neppure alla lontana. Non mi sembravano attraenti? No, e comunque ai tempi vigeva una separazione netta, sia al castello che nel villaggio, tra maschi e femmine. La mattina in cui incontrai il mio futuro primo tormento amoroso, quella bambina grassottella, non so neppure se lei mi guardò. Io la guardai e, siccome non l'avevo mai vista, chiesi a un compagno lì presente chi fosse. Non era chi credevo, ovvero non la sorella di uno dei villaggio, cui in verità assomigliava. “Macché sorella di Marco”, ci rispose l'interrogato, “è la romana”, precisò.


Nel 195x avevamo cambiato l'ordine delle vacanze, e il posto di mare. Non più d'agosto e un poco in settembre, giù sulla costa, di fronte all'isola, ma di luglio e a nord, meno distanti dalla nostra città. Con più “eleganza”. Per cui fu d'agosto che incontrai in quel bar il mio primo tormento amoroso, che come me stava iniziando a dare la scalata alla scuola media. Presto divenimmo amici. Soltanto una di quelle antipatie inspiegabili e “naturali” avrebbe potuto tenerci lontani, nell'area del villaggio e nell'ambito del castello, dove presto invitammo quella bambina e sua sorella a giocare: a Monopoli, ma anche a “sette e mezzo”. Eravamo in quattro: qui e altrove sfioro appena il fatto della presenza di mio fratello. Che con il castello fece sempre e soltanto rima, beato lui.


Ora, questa lunghissima amicizia appena accennata nei suoi inizi, durata a singhiozzo per decenni, costituisce il nucleo del mio stare al castello - “cupo” - nel villaggio - “un intreccio d'invidie” - e nel viverne le conseguenze.


Ai tempi gli abitanti del villaggio e del castello erano per lo più “comunisti” o “socialisti”, tanto che in estate si organizzava una misera Festa de l'Unità e una Festa de l'Avanti! Mi raccomando il punto esclamativo. Non che mancassero singoli critici che chiamavano “L'Umidità” il quotidiano del Pci. Mio padre era tutt'altro che comunista. Invece il padre delle sorelline romane era “comunista”, se non era iscritto al Pci. Mio padre era stato monarchico e fascista, poi avrà votato per la Dc o, in libera uscita, per il Pli, il partito liberale. Bisogna dire però che il quotidiano che acquistava ogni giorno in città ai tempi non era un foglio per sottosviluppati intellettuali com'è ora. Scendeva in fondo al villaggio a comprarlo, mio padre? Non credo. Del resto non appena la decenza glielo consentiva abbandonava il campo, forse voglioso di provare l'auto lungo quei centoventi chilometri. Oltrepassato il Ferragosto i doveri della professione lo richiamavano in città. E chissà che altro.


Il padre delle sorelline romane, che non era romano, ma originario di un capoluogo di provincia nella nostra regione, gli stava educatamente antipatico: era un intellettuale, mentre mio padre non lo era. Non nel senso vero e proprio, che è quello di porsi dei problemi, professione a parte. Beninteso: anche problemi del cavolo!


Il mio primo tormento amoroso tendeva, tra i piaceri della conversazione, ad irritarmi con le sue certezze da “figlia di comunista”. E' una fortuna che abitassimo in due città tra loro lontane, altrimenti avremmo potuto magari imbastire un matrimonio, invece di tessere una trama adolescenziale e nient'altro. Che tuttavia mi ha dato tanto di quel malessere che ancora a tratti ne rivomito un po'. Come? Ci vuole ingegno, tenacia, e in questa direzione non me ne mancano.


Meglio parlare della campagna, che stringeva da ogni lato il villaggio in modo piuttosto selvatico. La macchia era penetrabile solo da cinghiali, istrici, serpi. I sentieri erano e forse sono ancora decine, centinaia, facilissimo finire in un avvallamento e perdere di vista il villaggio e il castello. Che poi non basta “vedere”, se non conosci i sentieri. A camminare davvero ho tuttavia iniziato attorno ai quarant'anni, di mattina. Anche per togliermi dall'uggia che moglie e figlio potevano darmi. E' un vizio, quello di camminare senza meta, che ho ancora, e sia pure in città. Il tempo passa, la noia s'inganna fino a un certo punto. Non raccomando a nessuno di camminare, ma neppure lo sconsiglio. Anzi: qualche volta muovere passi mi è sembrato provare che si è vivi e ancora non del tutto fottuti.


La campagna è fitta, per trovare castagneti bisogna spostarsi non di poco dal villaggio, e poi? C'è ombra, tutto qui. Funghi? Mai stato abbastanza paziente per cercarli. Se vi piace camminare, e concludo, magari per ore e senza incontrare nessuno, là potete farlo. I carabinieri in auto blu s'insospettiranno. “Ma cosa fa? Da dove viene?” - mi hanno chiesto una volta, beninteso mentre percorrevo un asfalto. “Perché cammina?” “Perché mi piace”. Per passare il tempo.

La campagna che stringe il villaggio non è gentile. Quanto alle famigerate vipere, vivono in totale solitudine ed evitano gli umani con una certa eleganza. Non come altre serpi, che frusciano via chiassose. Volpi? Sì, può capitare di vederne, ma è raro. Cinghiali? Ai tempi li cacciavano, quindi dovevano essercene, ma attorno al villaggio, in quelle campagne, non ne ho mai visti. Alberi cui impiccarsi? Certo, certo, ma non sono mai andato in giro armato di corda.

Non posso certo attribuire la mia infelicità diffusa tra castello e villaggio al mio primo tormento amoroso. L'attribuisco alla sfortuna, che mi ha fatto incontrare quell'amica lì e non un'altra. Eppure spesso ho pensato di aver insistito per tanti decenni, fino al 199x, a frequentare il castello e il villaggio - totalmente privi di puffi - per tenere in vita il filo che mi aveva legato alla mia amica, di cui per discrezione ometto il nome, un qualsiasi nome anche falso. Per lei ho mantenuto la fedeltà al castello, al villaggio. Poi per uno sbalzo della fortuna è capitato che lei stessa prendesse casa proprio nel castello, sopra di noi.

Semplicemente: anche questo tormento amoroso ha fatto il suo corso ed è morto, come muore ogni cosa, ogni persona, ogni impero. E io? Interiormente sono lo stesso ragazzo di una volta, com'era mio padre, ma da fuori nessuno logicamente se ne accorge.


La cara, ciarliera, opinante, dolce fanciulla non me lo faceva tuttavia venir duro, o almeno questo è il referto della memoria. Eppure su una sediolina di legno impagliata e tinta di verde mi ero finalmente masturbato, un primo pomeriggio estivo, né mi ricordo che anno fosse. Al castello, in casa nostra. Uno spasimo nuovo, piacevole. “Indimenticabile” come il sapore della prima sigaretta. Una “Giubek”. Rubata a un'anziana signorina della cerchia della nonna.


La cerchia dell' “ortino”. Dove magari avevo sfilato da un pacchetto la “Giubek”, non visto dagli adulti che vi si ritrovavano sempre nel pomeriggio, e qualche volta in mattinata. Ai tempi l' “ortino”, vicinissimo al castello, ma facente parte del villaggio, constava di due “piani”, quello d'ingresso e, dietro, più in basso, ciò che forse una volta aveva giustificato il nome di “orto”. Ospitava comunque solo i resti di un pollaio. Si entrava da uno stretto cancello di ferro a strisce - non so più se venisse chiuso con un lucchetto in vista della notte. A destra erano sparse diverse sedie e un tavolino, a sinistra dopo pochi metri si trovava un muro dietro cui tubavano piccioni. Da lì si scendeva in prossimità del pollaio, di cui restava la scaletta proverbiale: “la vita è come la scala del pollaio, breve e merdosa”.

In definitiva era un salottino di estrema modestia, l' “ortino”, ma fresco, e all'ombra. Ci si “riunivano” tre maestre in pensione, la nonna, la proprietaria dell' “ortino”, la fumatrice di “Giubek”; e mia madre, la madre delle sorelline romane, un anziano ex geometra sempre vestito di tutto punto, cravatta e giacca a doppio petto, e mio padre, ma di rado, insieme al padre delle sorelline. Facevano conversazione, due delle tre maestre in pensione sferruzzavano. Qualche ospite infoltiva la compagnia dopo aver salutato da fuori ed essere stato invitato a entrare. Il parroco? Una qualche “popolana” meno impresentabile delle altre? Non si consumava alcuna bibita, si fumava: è evidente. Si sfogliava un qualche quotidiano. Mio padre e il padre delle sorelline potevano blandamente discutere di politica, ma anche urtarsi, se era il caso, così venni a sapere che mio padre aveva detto all'altro gallo del pollaio: “lei è un demagogo da strapazzo”. La nonna invece lo considerava “una persona istruita”.

Credo, per cambiare discorso, che soltanto mia madre e la madre delle sorelline si dessero del tu. Gli altri usavano senza dubbio il “lei”, anche le tre ex colleghe maestre. Signor tale, dunque, Signora talaltra, o Signorina x: la fumatrice di “Giubek”, che mia nonna denominava malignamente “la vergine cuccia”. Parini. Non ero arrivato al Parini e quindi non capivo che cosa c'entrasse la “cuccia”.


Il nostro cane, se chiuso in casa, abbaiava inviperito sporgendosi dal “verone”. Non appena poteva, scappava e restava assente ore e ore, perfino una notte intera. A modo suo era indomabile. Capitava infatti che nostro padre, cui certo il cane dava fastidio acustico, lo portasse fuori, osasse scioglierlo e pretendesse di farsi ubbidire. Rendendosi, almeno agli occhi del figlio maggiore, ridicolo con quei suoi ripetuti “viéniquì, viéniquì”. Stretta la “e”, raro resto di un'origine extraregionale.

Io passavo ore seduto poco lontano dall'”ortino” su uno dei muretti che limitavano la “scalinata” della scuola. Era un posto che mi consentiva di vedere da lontano arrivare la mia dolce amica. Del resto mi annoiavo, ma senza rendermene conto. Semmai mi indispettiva che lei ci mettesse tanto tempo ad apparire.

Diciamo meglio: sprecavo il mio tempo in quanto ne avevo tanto a disposizione da non doverlo neppure contare. Subito devo correggere tale affermazione. Spesso avevo da preparare uno o più esami di riparazione. Ecco, al castello, nel villaggio, in quell'area, ho sprecato moltissimo tempo con la massima disinvoltura. Oggi che di tempo me ne resta poco, mi annoio senza aver più la forza di indispettirmi.


Come faccio a sapere che cosa succedesse o non succedesse, si dicesse o si tacesse nell' ”ortino”, visto che ne stavo fuori? Sono congetture che si basano stanche su certi pallidi riflessi che, magari durante la cena, nelle parole della nonna, di mia madre, mi pareva di cogliere. E' vero, ogni tanto qualche minuto potevo passarlo anch'io nell'”ortino”, o, cosa facilissima, ci buttavo dentro uno sguardo nel transitare verso il cuore del villaggio, se la mia amica tardava un po' troppo - per farsi bella. Era bionda, abbronzata e indossava bei colori. Vederla spuntare faceva una certa impressione. Come fosse un volatile esotico. Non me lo fece mai venir duro, salvo errori, ma risaltava solo a causa della sua assoluta unicità nel villaggio. Non ce n'erano altre, né bionde né brune. Mai “sei l'unica” sarebbe stato detto per migliori motivi. Comunque, ero ben cotto di lei, e ciò sarebbe bastato a giustificare qualche esagerazione, allora.


Ai tempi non era stato inaugurato l'uso dell'ora legale, per cui verso le sei del pomeriggio alcune delle persone rimaste nell' “ortino” un paio d'ore si avviavano a una passeggiata verso il cimitero del villaggio, distante dall'abitato, ma non troppo, o a quella verso la fonte. Perfino mio padre talvolta vi si avventurava. La prima guardava al tramonto, la seconda garantiva più ombra. Dopo i saluti ognuno a casa per la cena. Poi, con mia gran gioia salivano qualche volta al castello le sorelline insieme ai loro genitori. Di rado, quando l'estate s'era fatta più tenera, si realizzavano da parte delle due famiglie, ormai divenute reciprocamente amiche, merende in luoghi distanti dal villaggio, dove magari un castagneto offriva sedute beninteso garantite da tovaglie e simili. “Mangia, non fare lo scemo!” - mi disse, una sera che languivo in modo troppo wertheriano, il padre della mia amica - “sandaletti tutti d'oro di babbo suo”. Tornammo nel buio. A piedi. Arrivati al castello le mamme pensarono di procedere all'improvvisazione di una “cena” che non riuscì affatto misera, tanto era stato abbondante il rifornimento fatto per la lontana merenda. Gli abitanti stessi del villaggio quando potevano organizzavano merende campestri che però saggiamente chiamavano “cene”. E dopo, ci riferiamo alle ferie d'Agosto, le vie si animavano di transiti digestivi. Ai tempi, causa la rarità dei passaggi di auto, le domeniche pomeriggio vedevano su e giù per il “corso”, cioè lungo la strada che avvolgeva il villaggio come una serpe, andare ghirlande di passeggiatori, le ragazze ancora non fidanzate a gruppi di cinque, sei, a braccetto, le famiglie, i bambini. Un'abitudine presente anche in paesoni come quelli che la via verso il capoluogo di regione permetteva d'incontrare. Il traffico scarso doveva fermarsi, avevano la “precedenza” i pedoni, ovvero le citate “ghirlande” di umani. Noi, seccati, ad aspettare i comodi del popolaccio appiedato.


Dopo cena la tv in bianco e nero, disponibile un canale solo, distraeva grandi e piccini, per quanto il padre delle sorelline preferisse la compagnia di “noi giovani” ai programmi televisivi se non anche ai discorsi dei suoi coetanei. Si rompeva le scatole, l'intellettuale, per cui le rompeva a noi “innamorati”, con la sua presenza. Ingombrante.


Che la mia amica non “eccitasse” me forse facilitò, insieme alla sospensione dell'eccezionalità che entrambi vivevamo solo in Agosto, “unici” disponibili reciprocamente, il suo “fidanzamento”, in città, con un ragazzo di lei un poco più grande e magari da lei “eccitabile”. Da lì iniziai a disperarmi e, ogni estate, a rinnovare tale disperazione causata dalla perdita di ciò che mi pareva eccezionale. E, davvero, eccezionale non era. Sarebbe bastato lasciare il castello, il villaggio, e scendere sulla costa, dove di fanciulle colorate ce n'erano a decine, a centinaia. Anche qualcuna per me.

Restai attaccato al villaggio, al castello. Che erano Lei. Non che non ne avessi abbastanza, di Lei, del villaggio e del castello. Forse giocava in segreto un mio grossolano tentativo di fermare il tempo. Di riacchiapparlo.


Servì una scintilla per farmi chiudere con il castello, con il villaggio, svanito ormai quel mio primo tormento amoroso, per farmi aprire gli occhi, per vedere quante altre colline, quanti boschi, quante “bellezze” esistono. E fu una lite notturna con un vicino, al castello, causata dai suoi rumori radioamatoriali entro quella piazzetta dieci per dieci che avevo creduto per anni di amare tanto come “mia”. Tutto qui. Né vale scriverne ancora. Dopotutto quel tanghero mi fece un favore.

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