Fuoco sacro e fuoco profano

Decenni or sono partecipai senza troppo impegno a certi incontri di un gruppo di psicologi e sociologi attratti nell'orbita di un'associazione umanitaria operante nel settore dei malanni psichici contigui alla criminalità. La materia dell'associazione, finanziata dall'eredità di un facoltoso filantropo, erano i “folli rei”, per dirla all'antica, e i reclusi nei “manicomi criminali”, o meglio negli “ospedali psichiatrici giudiziari”, istituzioni che oggi, a quanto pare, non esistono più. Agire in vista del minor malessere possibile di un tizio che magari aveva sanguinariamente ucciso la fidanzata ed era finito all'o.p.g. : questa, per fare un esempio banale, la missione dell'associazione. A me, cui la vita aveva già propinato diversi calci in varie parti del corpo, e che, in altri termini, avevo una quarantina d'anni, una volta scappò detto, in riunione, che quel tizio dell'esempio avrebbe dovuto essere rinchiuso e che la chiave della cella avrebbe dovuto essere buttata via, ma ciò, terribilmente reazionario, non bastò a disgustare la presidente dell'associazione. Anzi! In fondo ero un “accademico” anch'io, seppure irrilevante, e l'associazione aveva bisogno di “accademici”, magari scanzonati. La presidente contava ai tempi già due mariti defunti, tra i quali il filantropo. Non so se avesse figli. Doveva avere una decina di annetti più di me ed era dotata di molto spirito d'iniziativa e di organizzazione. Perché io, che già avevo il mio da fare come ricercatore e docente all'università e marginalmente praticavo la psicoterapia, avessi aderito al gruppo di colleghi attratti nell'orbita di quella associazione filantropica che, tra l'altro, si occupava anche dei carcerati “sani di mente”, non lo ricordo. Avrò pensato che era qualcosa di nuovo, per me, e che, se un paio di conoscenti di mia fiducia le si erano avvicinati, sarebbe potuto uscirne un che di interessante. Insomma: mi era sembrato un carretto su cui salire - e poi “da cosa nasce cosa”. Non avevo ancora perso tutte le speranze di “far carriera”! Durante una riunione successiva a quella in cui avevo rilasciato il mio parere scanzonato e viscerale la presidente disse ai presenti che entro qualche mese ci sarebbe stato un congresso internazionale, a Londra, sulla materia umanitaria che qui sopra ho cercato di tratteggiare. Lei ci sarebbe andata. Rivolgendosi a me - sì davanti a tutti, ma come in un”a parte”, quindi con una sorta di indiscrezione che del resto il tono delle riunioni, piuttosto informale, permetteva - la presidente mi domandò se ero disposto ad accompagnarla a Londra, naturalmente spesato dall'associazione. Accompagnarla e partecipare al congresso, beninteso. Non ero noto come un insider di Londra. Non ricordo se le dissi “no” subito, comunque a Londra con lei non ci sono andato né so più nulla del congresso. Mi parve che la proposta della presidente contenesse aspetti di natura personale, forse per il modo in definitiva autoritario in cui me l'aveva fatta; non saprei, è passato troppo tempo. Mi considerava “un ragazzo” da “tirar su”? Da “conoscere meglio”? Da “mettere alla prova”? Le “piacevo”? Mi vidi “a rimorchio” di quella signora in un ambito di cui come al solito m'importava fino a un certo punto; chiamato a farle il “controcanto” in raggelanti riunioni cosmopolite, durante colazioni e pranzi di lavoro, cene e dopo cene, a condividere l'albergo, voi capite. Mi vedevo, assurdamente, nella veste del “toy boy”? Del “segretario”? Era, la presidente, una “divoratrice” di uomini? Non saprei: certo era due volte vedova. Il sacro fuoco della filantropia forse non le bastava. Necessitava di un po' di sano fuoco profano? Eseguendo invisibili scongiuri al pensiero dei due mariti defunti della signora declinai l'invito. Nel giro di pochi mesi mi allontanai dal gruppo e dall'associazione, né ho più rivisto la signora. Era un personaggio interessante. Ma non tanto da “accompagnare” a Londra.

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