Domestiche e domestici del secolo scorso

Luisa è l'ultima domestica che mi ricordi al servizio di mia madre. Le rare volte che la incontrai mi sembrò adatta alle pretese della padrona di casa, che le faceva spesso spolverare le gocce di cristallo, una a una, della lumiera in salotto, oppure il sotto della superficie di un tavolino di vetro pesante, sempre in salotto. Era magra, mite, Luisa, abitava a poche decine di metri dalla casa di mia madre, anziana, e in teoria avrebbe potuto accorrere in suo aiuto attraversando la strada. Peccato che ci fosse di mezzo un marito geloso il quale forse non gradiva la mia rara presenza nella casa, al mattino, quando passavo a trovare mia madre. Mi trattenevo una mezz'ora, tutto qui. Sorbivo un pessimo caffè, facevo due chiacchiere non sempre agevoli, e me ne andavo.
La Lucia, domestica rimasta al nostro servizio per decenni, era andata in pensione o comunque si era ritirata: doveva ormai esserle gravoso prendere il pullman e venire a Firenze dal suo paese, in Chianti, per poi farsi, magari a piedi, il resto del percorso. La Lucia era sposata con un “ruspista” e aveva tre figli, un maschio e due femmine. Il marito talvolta, pare, gliele suonava, non saprei perché. La Lucia era simpatica, piuttosto alta, magra, dotata di parola. Una mattina d'inverno, letto presso un'edicola il titolo esposto in bacheca del quotidiano cittadino, entrò in casa nostra e proclamò: “freddo popolare, dice il giornale!” Aveva l'alito cattivo, per cui era consigliabile non avvicinarsi troppo, quando parlava. Magari il marito la picchiava per questa ragione, chissà. Una volta, nei primi anni settanta, tutti loro, cinque, vennero a trovarci in campagna, né so come sistemammo tutti quegli ospiti. Certo la nostra casa in campagna disponeva di quattro camere da letto. Comunque una di quelle notti io, per la prima e unica volta in vita mia, non riuscii a prender sonno. Mi avevano spostato in una stanzetta sotto la torre dove non avevo mai passato che qualche minuto ogni volta. Era bianca, spoglia, da una parte stava in mostra una vecchissima macchina per cucire Singer, di quelle ancora a pedale. C'era comunque odor di muffa. Dopo qualche mezz'ora inutile mi alzai, presi una sedia e l'avvicinai a un balcone. Per cui rimasi a guardare il cielo. Verso le otto del mattino, non appena la nonna si alzò dal suo letto, corsi e mi sdraiai per dormire.
Quando mia madre morì e ci fu il funerale, la nostra casa - siamo di nuovo a Firenze - si riempì, per l'ultima volta in cinquant'anni di nostra residenza, di visitatori. Tra loro la Lucia, che a un tratto disse a voce ben alta e quasi allegramente: “e ora chi ci torna qui?”. Voleva dire: chi ci abiterà?
La nostra prima domestica, almeno la prima che io ricordi, fu la Rina, giovanissima, piccola, grassottella, bionda dai capelli crespi, casentinese. La sua assunzione comportò che una stanza fosse data a lei, che era a servizio completo. Ebbe una stanza con un balcone che dava su un giardinetto. Se avessimo assunto una domestica a ore quella stanza sarebbe presto toccata a me, invece io fui messo a dormire insieme a mia nonna in un letto matrimoniale. Ho dormito con mia nonna fino all'inverno “53/”54, quando cambiammo casa e avemmo più numerose camere da letto. La Rina era abbonata a un giornaletto dal colore verdino i cui numeri lei riceveva per posta. In estate veniva con noi al mare, in campagna non saprei. A Follonica mi ricordo che di mattina passava sulla strada rasente le casette allineate davanti alla spiaggia un lattaio che pedalava sopra il suo triciclo e avvisava la clientela con una trombetta. Le donne uscivano tenendo un qualche recipiente in mano che il lattaio riempiva. Una mattina che mi trovavo insieme alla Rina a ricevere il latte, quell'uomo mi si rivolse e mi chiese: “hai voglia di latte, eh?”
A Follonica la Rina conobbe un giovanotto che si chiamava Alberto e lavorava in certi orti che si trovavano a nord del paese, cioè a Prato Ranieri. Il padre di Alberto era contrario al fidanzamento del figlio con la Rina, non saprei perché. Forse perché la Rina era una donna di servizio, o perché era casentinese e non maremmana. Io e mio fratello giocavamo coi burattini e mettevamo in scena la vicenda contrastata della Rina con Alberto. Comunque si sposarono e ci invitarono in Casentino alle nozze. Sarà stato il “59. Mio padre, mia madre, la nonna, io e mio fratello, riempimmo la Giulietta e andammo in Casentino. Nozze contadine. Nel secondo pomeriggio mio padre volle ripartire. La madre della Rina apparve fuori da una porta. Io mi trovavo ai piedi di una breve scalinata che conduceva a quella porta, e per salutare la mamma della Rina non trovai di meglio che inginocchiarmi e farmi il segno della croce! Ero fresco di prima comunione. Avevo un po' di confusione in testa.
Più avanti nel tempo, fino al “70, qualche volta sarei passato a vedere la Rina, ormai una donna fatta, che stava al banco di un negozio di generi vari e tabacchi, a Prato Ranieri.
Potrei valutare che la Rina sia stata al nostro servizio una decina di anni. La Lucia ben più a lungo.
Dopo la Rina assumemmo una ragazza marchigiana che si chiamava Antonia, bruna, magra, mi verrebbe da dire che assomigliava a Anna Frank. Mi ricordo di un suo vestitino a quadretti bianchi e azzurri. In Maremma fu oggetto di attenzioni da parte di un certo Mirco, che aveva molti fratelli e sorelle e una madre dotata di cattiva fama, in paese. Difatti la avevano soprannominata “la Tradotta”. Non che fosse stata tradotta in italiano da qualche lingua straniera o da qualche dialetto, no, la “tradotta” a quei tempi era il treno che trasportava i militari di bassa forza. Mirco era un giovanottone che una volta mi portò in motocicletta a fare un giro, io seduto davanti con le mani sul manubrio. Che mi invitò alla cerimonia della spremitura dell'uva rifocillandomi con vino e prosciutto, e pane naturalmente, per cui presi una sbornia. Un pomeriggio Mirco fissò con l'Antonia un trucco: lei avrebbe portato fuori dal paese me e mio fratello a fare una camminata, lui ci avrebbe aspettato. Come fece. C'introdusse in un suo orto, ben lontano dal paese, ma non da occhi indiscreti. Mentre io e mio fratello si giocava ad arrampicarci su un fico - encomiabile pomeriggio maremmano d'estate - Mirco e l'Antonia stavano sdraiati su un prato leggermente in discesa. A ritorno incontrammo mia nonna furibonda: qualcuno doveva averle rivelato l'intrigo. Mirco con mia grande sorpresa saltò via dalla strada e sparì nel folto. La nonna se la prese con me. “Io che c'entro?” - le chiesi. “Quando non si può picchiare l'asino si picchia il basto!” - rispose lei. Mirco e l'Antonia si sposarono - stavolta, va da sé, senza la nostra partecipazione alle nozze. Dopo pochi anni l'Antonia morì.
Sostituimmo l'Antonia con la Mila, ragazza del posto. Abbastanza carina, dopotutto. A Firenze ci raccontò che al paese d'inverno andavano tutti loro, lei sua sorella il padre e la madre, a letto presto, molto presto, credo per difendersi dal freddo. La Mila a Firenze conobbe un giovanotto che faceva l'ottico e che aveva la passione del motociclismo. In estate veniva in Maremma da Firenze con la moto e mi diceva quanto poco tempo ci aveva messo. Le solite cose. Si sposarono lì in paese, stavolta; io, grandicello, partecipai da solo alla festa di nozze, di cui ricordo solo i dolci poveri fatti in casa, buoni e soprattutto leggeri. La Mila e l'ottico si trasferirono in Liguria, né so come poi sia andato il matrimonio.
Dovemmo assumere una nuova domestica. A questo punto l'ordine, ammesso che fin qui sia stato corretto, mi s'imbroglia, comunque va bene lo stesso. Tramite certi nostri parenti stabilitisi in Sardegna da decenni ci arrivò in casa una donna non giovanissima, bruna, con la treccia, di carnagione scura, che non usciva mai di casa, nemmeno il giovedì pomeriggio e la domenica, giorni canonici, e spesso, quando non aveva lavori da fare, le cosiddette faccende, si sedeva per terra ai piedi di mia madre, seduta in poltrona. Scalza. Avrei molti anni dopo letto, in Evaristo Carriego, di Borges, la storia di un gaucho portato dal padrone in città come premio per la sua abilità, il quale gaucho, abituato alla libertà della pianura, non esce mai dalla locanda e se ne sta a sorbire mate in attesa di tornare alla normalità. Così la nostra domestica sarda, che, non so come, aveva avuto a che fare con un convento di suore, al suo paese. La nonna detestava la sarda e la sospettava, beninteso non in modo esplicito, di essere lesbica, credo a causa dell'attaccamento che manifestava per mia madre. Durò poco. Un vero personaggio!
Mi ricordo la Cristina, una friulana. Alta, capelli ricci, biondi, opachi. Lei usciva eccome. Secondo mia madre “incontrava” molto al Parterre, la domenica pomeriggio, in una sala da ballo. Una volta mi disse che mi spuntava “l'uccello” dai calzoni del pigiama. Non avevo mai sentito, fin lì, questa parola usata a tal fine. Ero un bambino o poco più. Durò poco anche la Cristina.
Siamo ancora nel periodo delle domestiche fisse, l'era delle domestiche a ore sarebbe venuta dopo. Iniziò una serie di tre domestici. Pino, Venanzio e Mario. Mario a ore.
Pino veniva dalla provincia di Ferrara, aveva delle mani molto grandi e sapeva fare una sorta di purea che poi metteva in forno e insaporiva con la noce moscata. Buonissima. Rimase da noi diversi anni, veniva anche in Maremma, dove socializzava con i giovani del paese. Era leggermente effeminato. Mi raccontò che al suo paese si ritirava con gli amici in cantina a mangiare salumi e a bere vino. Dopo Pino ecco Venanzio, veneto. Aveva servito in una casa nobiliare, per cui aveva delle abitudini piuttosto inadatte al nostro normale appartamento e ai nostri usi e costumi. Stando impalato, durante i pasti, dietro mio padre, ci metteva in imbarazzo. Era un po' “signorina” anche lui. Prese la patente, si comprò una Fiat 127 e se ne andò. Rispondeva agli amici che mi telefonavano dicendo di me che “il signorino” eccetera eccetera. E gli amici mi motteggiavano. Capita di peggio.
Non si creda che i miei trattassero male le domestiche e i domestici, non mi pare proprio. Se ne andavano quando trovavano lavori migliori, o, si è visto, perché si sposavano. Tutto qui. Logicamente le padrone di casa sono sempre un po' scontente dei domestici, questo sì. Ma mia madre, men che meno mio padre e mia nonna, non facevano i prepotenti o gli arroganti con loro. Né mio fratello, né io.
Non ho la minima idea di quanto mio padre pagasse queste persone, assolutamente nessuna idea.
Mario era un uomo piuttosto in là con gli anni. Veniva a ore. Era milanese. A quel punto io ero già un giovanottino, per cui in estate spesso capitava che restassi da solo a Firenze, e potevo chiacchierare con Mario, di età all'incirca paterna, di questo e quello. Era abbastanza simpatico e pareva saperla lunga. Durò poco.
Dopo fu la volta della Gemma, una donna alta e ossuta, bionda, un po' teutonica. Comunque era fiorentina, abitava lungo l'Affrico in un seminterrato ed era sposata con un facchino. Una volta, in estate, m'invitò a cena e mi rimpinzò ben bene di cibo e di vino. Il marito era un omone. L'alluvione del Novembre del “66 vide tra l'altro da noi la presenza della Gemma. Una mattina dopo l'alluvione venne per le sue ore di lavoro e proclamò che aveva visto da qualche parte gli “sciantillì” (chantilly), cioè stivaletti di gomma, utili in quei giorni, in vendita a cifre folli, non saprei se follemente basse o alte. In gamba, la Gemma.
Ed eccoci di nuovo, se non ricordo male, alla Lucia, che servì “la sua signora” per più di venti anni. Non so se incoronare la Lucia o la Rina come domestica decisiva e storica. No no, la Lucia è stata il massimo. Freddo popolare.

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