Redditi da lavoro saltuario

Ho lavorato nell'ambito della psicologia per quarant'anni soprattutto come docente universitario, ma anche come analista (dal 1976 ai primi anni di questo secolo). Così mi sono guadagnato da vivere, essenzialmente. Eppure ho guadagnato qualche soldino anche in altri modi, certo da giovane, quando ero a carico di mio padre. E in età matura. Il primo lavoro remunerato che mi ricordi ora fu la vendita di opere divulgative nel campo dell'arte pittorica. Probabilmente ebbi tale breve esperienza durante gli studi universitari, ma potrei sbagliarmi. Non è che frequentando il liceo potessi fare chissà cos'altro. Comunque piazzai qualche abbonamento tra parenti e conoscenti, non riuscii però a diventare venditore di abbonamenti a domicilio presso sconosciuti. Avrei dovuto individuare possibili clienti, telefonare, convincerli a fissare un appuntamento eccetera. Non faceva per me.

Durante gli studi universitari, e precisamente nel 1970 e nel 1971, nel periodo che va dall'inizio di settembre alla fine di ottobre, ebbi occasione di lavorare come aiuto magazziniere nella sede fiorentina di una casa editrice scolastica. Il gran movimento di libri scolastici tra la sede centrale, la filiale di Firenze e i librai della Toscana, dell'Umbria, esigeva dei rinforzi. Un amico che già aveva prestato opera presso quella casa editrice mi propose il “posto” e io lo accettai. L'ambiente era il sottosuolo di un edificio a due passi da Piazza D'Azeglio, il magazziniere “capo” era una brava persona, un po' bislacco, simpatico. A pianterreno regnava invece il direttore della filiale, con due rappresentanti e una segretaria, moglie del magazziniere. Arrivavano grossi pacchi di libri, noi li aprivamo e ordinavamo i volumi (“Osserva, esperimenta e impara”) su certe scaffalature di metallo. Poi li sceglievamo in base alle richieste dei librai toscani, umbri, forse anche marchigiani, li impacchettavamo e li portavamo alla posta con l'automobilina della ditta. In pratica imparai a fare i pacchi! Era divertente e la compagnia era piacevole. Dati i tempi post sessantotteschi ribattezzai il volume di cui sopra: osserva esperimenta, e spara! Il magazziniere simpatico si chiamava Furio, ma per qualche ragione che ora non ricordo preferiva farsi chiamare Paolo. Forse ce l'aveva con suo padre. Il bello è che anche la moglie si faceva chiamare con un nome non suo, Elsa, né mi ricordo quale fosse quello giusto. Anna? I due coniugi si erano ribattezzati, lui passando dal raro al comune, lei dal comune al raro. Beninteso, il direttore chiamava “Paolo” con il nome anagrafico! I due rappresentanti, che andavano in giro per l'Italia centrale a proporre ai docenti delle scuole medie i libri di testo della Casa, logicamente mi erano “meno simpatici” di “Paolo” e dell' “Elsa”. Va da sé che il loro lavoro somigliava a quello che avrei dovuto fare anni prima con le opere di divulgazione d'arte. Tornavo a casa per il pranzo, poi nel pomeriggio ero di nuovo nel sottosuolo. La sera, un po' stanco, facevo una doccia e mi sentivo bene. Avevo fatto qualcosa. Impacchettare mi divertiva. Non smettevamo di fare battute tra noi tre, “Paolo”, l'amico Luciano e io. “Paolo” si atteggiava non di rado a lavoratore sfruttato (non dico che non lo fosse) e qualche volta sfogava la sua ostilità contro il direttore, un omino dai capelli rossi che essenzialmente lo disturbava con il detestato nome Furio, maltrattando l'automobilina che ci serviva per trasportare i pacchi alla posta. Sbatteva di proposito contro il muro lo sportello, aprendolo. Luddismo. Pare che io gli abbia rinfacciato una volta, non so quanto sul serio, di “reprimermi”, e quando nel corso degli anni ci siamo rivisti lui me lo ha sempre ricordato. Aveva una chioma fitta e zazzeruta, il suo diletto preferito era la radio, nel senso che operava da “radioamatore”. Una volta lo convinsero a passare una vacanza a Stromboli, ma quando scoprì che non c'era nemmeno (a Ginostra) la corrente elettrica, volle scappare subito. Portava appeso alla cintura dei calzoni un ciondolo fabbricato dalle sue solerti mani, una rotella imperniata su uno stelo che lui faceva spesso girare così, per nulla. Abitava con l' “Elsa” in una grande e bella casa vicino alle Cave di Maiano. Insieme alla madre e a due fratelli. Erano una famiglia degna di nota. Anni fa lo vidi in via Masaccio, camminava sull'altro marciapiede, e anche lui vide me. La chioma era diventata bianca, ma non aveva perso un capello. Non detti segno di saluto, nemmeno lui. Non mi andava di sentirgli dire un'altra volta che gli avevo rinfacciato di “reprimermi”. Con i soldi guadagnati in una delle due occasioni mi comprai un giubbotto di “nappa” da motociclista, “testa di moro”, tagliato su misura. Non ricordo quanto mi pagarono. Nel 1972, laureato da poco, ritenni di non ripetere l'esperienza. Che non fu affatto malvagia. Il peso dei pacchetti di libri e il loro maneggiamento, oltre alla loro confezione, mi dava gusto. Ho ancora una lente d'ingrandimento che “prelevai” (“occulta compensatio”) da un atlante. “Paolo” è morto da poco.


Tra il 1968 e il 1973, mi pare, detti ripetizioni a ragazzi e ragazze delle medie e delle superiori. Nove in tutto. Se non sbaglio, a tre o quattro delle medie. Ho insegnato italiano, latino, greco, inglese, filosofia, storia. Il mio “capolavoro” è stato l'assistenza a due studenti dello scientifico che intendevano presentarsi all'esame di maturità saltando la quinta. A casa di uno dei due. Riscaldamento eccessivo anni settanta. Quasi tutte queste nove esperienze ebbero luogo a casa degl'interessati, che abitavano anche lontano, a volte. Peretola, Piazza Puccini. Ma me ne fregavo, in moto le distanze non m'importavano. Ho avuto due fallimenti. La figlia della sarta di mia madre, che abitava a duecento metri da casa nostra, una bella pagnottina, non riuscii a farla promuovere. La ricevevo in sala da pranzo. Ci stavamo larghi, era assurdo. In zona Duse m'ingaggiò invece un arrogante signore tramite inserzione (sua) sul giornale. Dopo poche lezioni mi accorsi che il ragazzino in questione era un deficiente, dico sul serio, e che la sorella maggiore faceva i compiti al posto suo. Declinai, non so quanto diplomaticamente, l'incarico. Mai visto il padre, né la madre del piccolo. In zona Puccini detti lezioni d'italiano a una bruttoccia cui prestai – irreversibilmente - il Disegno storico della letteratura italiana di Natalino Sapegno. Già laureato e ai primi passi di quella “carriera accademica” che non ho fatto se non quanto è bastato a incassare “tfr” e pensione, il “mio” professore mi propose di far ripassare la letteratura italiana a una certa ragazza sua conoscente in vista dell'esame di maturità. La ricevevo in uno studiolo, nei fatti il “tinello” di casa nostra. Nel 1969 accettai di far ripetizioni di greco, e sottolineo di greco, a una ginnasiale figlia di un'amica di mia madre. Abitava in un sontuoso appartamento su Piazza D'Azeglio. Mi toccò insistere, per farmi pagare le ultime due lezioni impartite alla ragazza. La madre, sarcastica, mi fece notare che ero “troppo turbato” da tale deficit, per lei irrilevante. In soldi di oggi erano una settantina di euro, che a un ragazzo di ventidue anni non fanno certo schifo.

Se non mi sono scordato di qualcuno, com'è possibile data la voragine di anni che mi separa da quei tempi, vengo ai due piccini residenti a Peretola. Uno era povero. L'altro era figlio di un artigiano che aveva il laboratorio sotto l'abitazione della famiglia. Una volta tornai a casa con la febbre e mi misi a letto. Influenza, tutto qui. In effetti non so se i due furono promossi, o meglio: non me ne ricordo.

Non so se dare ripetizioni, un'attività che ho lasciato in modo abbastanza insensato, dopotutto, sia il miglior tipo di lavoro che abbia fatto in vita mia. Credo di sì. Alcuni dei miei amici come me di sinistra lo deprecavano in nome, eventualmente, dei doposcuola “sociali” o di qualche forma di “donmilanismo”.

Da un altro punto di vista le due esperienze di “aiuto magazziniere”  sono state le migliori, a causa della loro concretezza. Ma è anche vero che quello era un lavoro troppo dichiaratamente provvisorio per me, senza impegno. Senza prospettive, ma allegro, non cupo. Un gioco. Ho fatto “l'operaio”! Ero figlio di un avvocato, ci si aspettava altro da me, e anch'io pensavo che avrei fatto il “professore”.

Insegnare mi piaceva, in privato mi piaceva di più, senza che lo Stato ci mettesse la proboscide, che rompesse l'anima. In definitiva l'attività di analista ha qualcosa a che vedere con le ripetizioni private! Solo che queste ultime hanno oggetti precisi, mentre l'analisi ha oggetti imprecisi.

Le due uniche supplenze di un giorno che ho fatto nella scuola non mi sono piaciute, specie la seconda, né ho insistito per fare la “carriera” di “professore” nella scuola statale. La prima ebbe luogo in una scuola media privata, oggi diremmo che apparteneva al “privato sociale”, dalle parti di Porta Romana. Ci insegnava una mia cugina. Un giorno che non stava bene, lei mi propose di sostituirla. Mi ricordo solo il momento della “ricreazione” in un cortile. Stavo scomodo, più che essere scomodo. La seconda fu regolare, mi ero laureato e facevo parte di una “graduatoria” stabilita dal “provveditorato agli studi” - mi chiamarono nella scuola media di Carmignano, a circa trenta chilometri da casa mia. Cure-Peretola-Poggio a Caiano... La via Pistoiese al mattino ve la raccomando! Il preside, un tipo dalla chioma troppo corvina per essere vera, mi intervistò sospettoso. Ma non ero un “donmilani”. In classe pretesi di far lezione e di catturare l'interesse dei ragazzini, i quali mi presero per un pischello, cioè non credevano che avessi venticinque anni. Gli mostrai la carta d'identità! Ero un dilettante. Tornai a casa stremato dalla loro indisciplina e mi detti subito malato. Ciò mi cancellò dalla “graduatoria”, comunque non fui più richiamato da nessuna scuola. Un amico mi derise: con i ragazzini delle medie un supplente al massimo può giocare a nascondino! Nemmeno lui era un “donmilani”. In realtà avevo alle spalle mio padre, una sicurezza che mi permise di fare lo schifiltoso. Puntavo “tutto” sull'università, da poco assaggiata in qualità di “addetto alle esercitazioni” - sorta di “assistente volontario”.

Prima di trattare del lavoro più eccentrico che io abbia fatto, voglio ricordare altri modi che ho trovato per guadagnare qualche soldo. Nei primi anni di “carriera universitaria” scrissi per una rivista di psicologia numerose recensioni di testi che via via pervenivano al direttore - “novità”. Erano brevi note pagate ciascuna pochissimo. Ricordo solo che in un caso gli autori di un libro si risentirono per ciò che avevo scritto e protestarono con il direttore. Ero stato un “donmilani”? Si pubblicò la loro lettera insieme alla mia replica. Niente di che, tempesta in un bicchier d'acqua. Mi stavo facendo degli “amici”!

La combriccola di docenti universitari entro cui tentavo di farmi posto mi fornì l'opportunità di “fare lo psicologo” nelle scuole, sia a Firenze, sia a Prato. Non solo. In un centro dei cosiddetti Patronati scolastici (non so se ancora ne esistano) a Prato, nei pressi del negozio dove vendono i “cantuccini”, inscenavo “the doctor is in” con ragazzini e ragazzine diciamo problematici. Nelle scuole “gli psicologi” erano guardati con sospetto, specie dai presidi. Nobile gara di stronzaggine! Del resto io non avevo nessuna esperienza, e va bene, capita, ma soprattutto non ricordo che i miei colleghi organizzassero riunioni di “supervisione” del nostro lavoro. Ricordo che una volta, durante una sorta di assemblea in una classe, quasi mi addormentai, eppure di chiasso ce n'era. Primaverilmente allergico, avevo la sera prima assunto del Polaramin! Ricordo anche di aver pranzato in un paio di occasioni insieme ai ragazzini in un “refettorio” rimbombante delle loro voci. Penosa esperienza diciamo acustica. Qualche professoressa mi aveva in antipatia? Certo avevo i capelli molto lunghi...E l'aria da pischello “contestatore”...

Nel centro vicino al negozio dei “cantuccini di Prato” ricevevo - “the doctor is in” - dei piccoli scombinati e qualche genitrice dei medesimi. Mi appiopparono un “autistico” - sensazionale! Patata bollente! Era un bel ragazzino umbro sui quindici anni che ne mostrava tre o quattro di meno. La madre era annientata da ciò che le era capitato in forma di figlio. Maurizio aveva già alle spalle una carriera di lunatico guardato dalle istituzioni, per cui usava il termine “complesso” che qualche mio collega doveva avergli appioppato. Altro che “complessi”! Solo che lui diceva “compresso”, povero piccolo. Era compresso da dentro e da fuori. “Frequentava” una delle scuole che visitavo anch'io. Eravamo entrambi spaesati. Gli piaceva non so quale giocattolo o cartone animato che faceva Bip, per cui chiese a una professoressa: “mi fai un po' bi?” La poverina capì una “cosaccia”. Maurizio dava dunque scandalo in genere con la sua alienità (bip bip) e nel dettaglio creava malintesi. Una volta però mi prese per mano e mi tirò fuori dalla nostra stanza di “terapia”, poi giù per le scale, quindi in strada, e dopo un duecento metri mi volle far vedere dove lui aveva fatto le scuole elementari! Queste sì che sono soddisfazioni! Dico sul serio.

Ricordo anche una certa Rita, carina: “aveva dei problemi anche seri e non ragionava male”. Un paio di volte mi telefonò, anni dopo, di mattina presto, per salutarmi. Le piacevano i “pellerossa”, insomma gl'indiani d'America, oggetto molto investito di passioni oppositive in quegli anni. Lasciai Prato e tutta la baracca, mi pare nel 1977, perché mi pagavano troppo poche ore al mese, cioè avrei dovuto lavorare per lo più gratis. Per cui mollai Maurizio, la Rita e gli altri. Ero un verme...


Nei primi anni settanta il “mio” professore mi propose di partecipare insieme a lui alla redazione della sezione psicologia di una “enciclopedia delle scienze pedagogiche” che aveva in programma un noto editore. Dovevamo individuare “voci” significative e scrivere definizioni e così via. Un lavoro che mi portai dietro in moto anche durante le vacanze. “Facevo le voci”, scherzava mia madre... Comunque si andò avanti e imparai qualcosa. Per farmi pagare dovetti aspettare diversi semestri. Della pubblicazione dell'opera l'editore non mi fece sapere nulla! Ritenni che avesse rinunciato. Ma una volta che mi aggiravo nella sala di lettura della biblioteca nazionale mi capitò sott'occhio proprio quella enciclopedia delle scienze pedagogiche, se ricordo bene il titolo. E tra i collaboratori risultavo anch'io. E il “mio” professore, nel frattempo defunto.


Prima di arrivare – non vi aspettate niente di che! - al mio lavoro cosiddetto eccentrico, or ora me ne è venuto in mente un altro che mi capitò nei primi anni novanta. Erano “conversazioni sulla psicanalisi” che un amico, l'intervistatore, registrava per una radio di Lugano. Anche qui per farmi pagare, anzi “liquidare”, ce ne volle di tempo, anni! Le registrazioni le ho ancora!


Intermezzo: ho pubblicato su carta otto testi di argomento psicologico. Ebbene: non credo di aver incassato mille euro in tutto, in soldi odierni! E insistendo con gli editori! Nulla ho guadagnato invece con i miei numerosi articoli su riviste del settore e non. La gratuità della prestazione intellettuale affligge molti, che però ci passano sopra in nome dei “titoli accademici” che danno le “pubblicazioni”.


Ieri mi sono tornate in mente altre due esperienze lavorative, di cui una è senz'altro la mia prima. Al termine della terza media, forse della quarta ginnasio, cioè quando avevo quattordici o quindici anni, un compagno di classe mi propose di partecipare al montaggio di non so più quali piccoli aggeggi elettrici. Ci si ritrovò in un appartamento - zona Beccaria – dove abitava la cuginetta magra e piuttosto maliziosa, osservo adesso a distanza di sessanta anni, del mio compagno. L'ambiente familiare attenuò la consistenza diciamo ripetitiva del lavoro. Non male dopo tutto!

Negli anni settanta invece con mio fratello e la sua ragazza, fornitrice dell'opportunità, ci impegnammo per un po' a disegnare copertine per libri scolastici. Ora mi ricordo di aver copiato meticolosamente a china la foto di non so quale “complicato” edificio sito in Francia, tutto qui. Non mi pare che ci abbia baciato un qualche successo, comunque l'opera era, nonostante che io sapessi disegnare, noiosa. Rinunciammo ai lauti guadagni da “illustratori”.

E arriviamo al mio “peggiore” lavoro remunerato. Uno dei due liceali frettolosi e impazienti che nei primi anni settanta avevo seguito nel “salto” dalla quarta alla maturità, divenuto ingegnere elettronico e poi titolare di una fabbrica di congegni elettronici, mi propose di correggere l'italiano dei manuali di istruzione riservati a quei benzinai che già negli anni ottanta iniziavano ad automatizzare l'erogazione di carburante – “post pay”, “pre pay” … Era il “core business” della fabbrica. Io, che ancora oggi ho la massima riluttanza a far benzina da solo, a infilare nell' “apposita fessura” banconote (non si dice carte di credito!), io, che una volta, ai tempi, mi sono trovato – Buster Keaton - con la pompa in mano senza saper cosa fare della troppa benzina che avevo “programmato”, ebbene: accettai la proposta del giovane industriale e mi misi a “tradurre” in italiano cosiddetto buono l'italiano cattivo del manuale per benzinai. Editor! Doveva, il testo corrigendo, aver a che fare con una anchilosata traduzione dall'inglese. Non funzionò. Oltretutto mi facevo pagar caro. Le mie correzioni non sembrarono valide al committente? Chissà. Avevo fantasticato di fuggire dall'orticello accademico, di “entrare nel petrolio”, niente da fare. Seriamente: questo è il lavoro remunerato peggiore che io abbia mai imbastito. Andare in giro per il settentrione d'Italia, Genova, Milano, Verbania, Trento, a far conferenze e a tenere seminari sulla psicoterapia, attività remunerate con parsimonia dagli organizzatori delle medesime è stato un lavoro migliore, ma soltanto di poco...



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