La stufa

Avevo una casa in collina dove non andavo più perché era troppo isolata rispetto al paese e per arrivarci dalla provinciale si doveva percorrere un sentiero scosceso che aveva bisogno di essere aggiustato ogni anno. Peccato, mi dicevo, il posto a parte i suoi difetti è piacevole. Così presi coraggio e un giorno mi trovai, dopo aver viaggiato per circa un'ora, all'imbocco del sentiero. Poiché da almeno dieci anni nessuno che io sapessi lo aveva dovuto o voluto percorrere, il sentiero era quasi scomparso, per cui parcheggiai l'auto e, con lo zaino in spalla, mi avviai verso la mia casa. Erano poche centinaia di metri. La casa mi si mostrò nel suo abbandono. Da ogni parte erbacce, rovi, cespugli vari. Un albero era caduto. La porta d'ingresso per miracolo si aprì. Voglio dire che infilai la chiave nella serratura, la girai due o tre volte a sinistra, di questo dettaglio mi ricordavo, ed entrai. L'ultima volta che avevo passato qualche giorno lì, senza pensare che non ci sarei ritornato per dieci anni, avevo lasciato ogni cosa in giro. Nella penombra che regalavano certe fessure delle imposte e la porta d'ingresso aperta alle mie spalle, intravidi, dopo aver colpito coi piedi diverse buste di carta marce sparse sul pavimento, una macchinetta per il caffè: era ammuffita fuori e dentro; le sedie, il tavolo, la dispensa, lo scaffale, l'acquaio, il divano e la poltrona, insomma tutto era polveroso e coperto di ragnatele. Cacche di topo. Non mi aspettavo di meno. Raccolsi le buste postali da terra pensando che mi sarebbero tornate utili per accendere la stufa. Al piano di sopra, cui arrivai constatando che la scaletta era ancora in grado di sostenermi, aprii subito l'unica finestrella ed ecco il letto, il comodino, il cassettone, l'armadio, i pochi quadri alle pareti, la finestra stessa: ogni cosa era coperta da ragnatele. Non mancavano ragni morti e, dappertutto, come a pianterreno, mosche morte, e cacche di topo. Dentro l'armadio lenzuola e coperte erano ingiallite e puzzavano. Avevo lasciato coperte lenzuola e materasso sul letto. Ero scappato di lì come una furia. I topi avevano rovinato tutto. A proposito: di buono c'era che la casa non era stata visitata da curiosi, non dico ladri, insomma come ho accennato la porta d'ingresso non sembrava essere stata forzata e neppure le imposte dovevano essere state toccate, almeno non da umani. La coppale naturalmente era quasi tutta scrostata, e il legno era ingrigito. Nel gabinetto, accanto alla camera, detti un colpo magistrale al finestrino, come non mi ero scordato che serviva fare per aprirlo, e cercai di girare le manopole dei rubinetti, di tirare la catena: niente. Almeno l'acqua l'avevo chiusa. Gli asciugamani erano ammuffiti. Tornai di sotto, girai verso sinistra una leva sotto l'acquaio che mi ricordavo serviva per aprire l'acqua e poi aprii, con una torcia in mano, lo sgabuzzino - già dieci anni prima era una trappola. La porta si muoveva male, doveva essere stata deformata dall'umidità. Però, mi dissi guardando in un angolo che sapevo, almeno ho della legna da ardere. A proposito: e la mia bella stufa a legna con il suo bravo tubo che saliva fino al soffitto, lo forava e su su svettando verso il tetto dava calore anche alla camera di sopra? La mia bella Mourn Warning? Se ne stava lì, in attesa, nera e coperta di ragnatele. Era l'ora di pranzo, la luce entrava dai vetri sporchi delle due finestre a pianterreno e anche su in camera, dopo che le avevo liberate dalle loro imposte. Non bastava, aprii tutto. Più tardi mi sarei dedicato all'accensione delle lampade – a petrolio. Ecco un'altra ragione dell'abbandono di quella casa in campagna. Se non era stata la principale. Me ne ero dimenticato, della luce a petrolio, il trasando generale mi aveva assalito distraendomi. Ma ne avevo, di petrolio? Incespicai nello sgabuzzino, trovai la latta del petrolio, la scossi. Ce n'era. Del resto prima di sera sarei salito al paese a far rifornimento del necessario. A parte la mancanza di corrente elettrica, che a un lettore come sono io è indispensabile, a parte il sentiero scosceso ogni anno da rimettere a posto, un difetto della casa che avevo comprato da giovane era la sua fondazione immediata sul terreno, ragione per cui l'umidità nella cucina era sopportabile soltanto in piena estate, quando del resto parecchio tempo io lo passavo fuori, a camminare, a leggere, a fare qualcuno dei lavori la cui assenza aveva come risultato la mezza giungla tutt'intorno. Iniziai a dare una pulita in cucina, ma ero già stanco delle ragnatele, stavo già rompendomi le scatole. Forse avrei dovuto cercare qualcuno che facesse pulizia al posto mio, dargli la chiave e tornare dopo una o due settimane, pensavo tossendo e starnutendo. In paese, in paese, presto! - mi dicevo mentre rabbrividivo. Forse dovrei accendere la stufa, pensai subito dopo. Mi ricordavo che serve uno strato di carta con sopra dei "legnetti", accendere il fuoco e poi appoggiarci sopra pezzi di legno più grandi. Di carta ne avevo poca, quelle buste raccolte da terra - dov'erano state spinte a cura di qualche postino da sotto la porta d'ingresso – erano umide come i giornali vecchi che avevo visto nello sgabuzzino, detto ai tempi “sgabuzzo”. Comunque la carta l'avevo. Magari in paese avrei poi comprato, insieme al resto che però mi stava in testa vago assai, un paio di giornali e li avrei fatti a pezzetti. Carta asciutta, insomma. A proposito: su in camera sopra il comodino c'erano due libri rimasti lì tutto quel tempo. Avevo cercato nel cassettone una spazzola per spazzolare quei due libri, che del resto facevano pena per quanto mosci erano diventati a causa dell'umido. Aprire le finestre! Non avevo trovato nessuna spazzola. Erano Il manoscritto di Brodie di J.L.Borges, e un Maigret. I cassetti si aprivano di colpo e solo sotto sforzo, cosa che sempre mi aveva messo di cattivo umore. Dicevo dei "legnetti". Bisognava che uscissi di casa e facessi un giro per procurarmeli. Ritrovai nello "sgabuzzo" la cesoia a leve lunghe di mia suocera - funzionava ancora benissimo. Zac zac. Feci scorta di "legnetti" ficcandoli via via in un sacco trovato nello "sgabuzzo". Lo "sgabuzzo" era l'unica presenza propizia della casa, fin lì. Strappai la cartaccia ingiallita e umida in tanti pezzi, composi dei pugnelli di questa pessima carta, li sistemai nel fondo della pancia della Mourn Warning e sopra quel cuscino di roba giallastra disposi i famosi "legnetti", che ai tempi erano stati motivo di malumori: chi va a prendere "legnetti"? Io ci sono già stato, oggi tocca a te e così via. Senza contare, valutai, che i "legnetti" devono essere secchi. Sopra i pugnelli di carta giallastra e i "legnetti", che non erano affatto secchi, misi pochi pezzi, pochissimi, di legno, finalmente cavai di tasca l'accendino e detti fuoco alla base della mia costruzione, fatta a memoria dopo dieci anni che parevano cinquanta. Ahi, la fiammella! La carta bruciò senza che la fiamma si degnasse di dar fuoco ai "legnetti", troppo umidi. Questa la mia spiegazione. Primo tentativo fallito. Scoraggiato da questo più che da tutti gli altri scacchi subiti nella mia iniziativa riparatoria, presi la decisione di andarmene - non in paese, di tornare in città! Chiusi le imposte, le finestre, trascinai fuori quattro sacchi di sporcizia e rottami (coperte due, due lenzuola, due cuscini, un materasso, porcherie varie) che avevo raccolto tossendo e starnutendo, infine chiusi la porta. Poi la riaprii, infatti non avevo girato la leva dell'acqua, che, almeno quella, scorreva. Mi bagnai le mani e la faccia. Girai a destra la leva sotto l'acquaio. Zaino in spalla, sacchi in mano, salii fino alla provinciale, caricai due sacchi, tornai alla casa, presi gli altri due, li spinsi fino all'auto, infine misi in moto e feci mogio mogio ritorno in città. Non appena vidi un cassone per i rifiuti mi fermai e con grande soddisfazione ci scagliai dentro i quattro sacchi. Arrivato, scrissi subito un elenco di tutto quello che avevo da fare per ridare vita alla casa in collina. Per la verità l'elenco si trasformò in un testo somigliante a quanto ho scritto fin qui, per cui ricominciai su un altro foglio il lavoro di elencazione - senza svolazzi. Essenzialmente avrei dovuto, pensavo, andare prima in paese e solo dopo sarei tornato giù alla casa. Mi venne in mente che avrei potuto far rifornimento lì di tutto quello che mi serviva, e che avrei potuto chiedere “consigli” a qualcuno, e così via. Era Aprile. Passarono un paio di mesi prima che trovassi il coraggio di tornare. Con la stagione buona riuscii a rimettere, da solo, le cose abbastanza in ordine, feci perfino qualche “doccia” all'aperto usando un tubo di gomma fissato al rubinetto dell'acqua della cui esistenza mi ero dimenticato. Com'è naturale misi da parte la questione stufa, non dico che me ne dimenticai. Anzi, la guardavo spesso, la Mourn Warning, come un'amica trasformata in nemica. Arrivai a trascorrere perfino sei sette giorni di seguito in quel “paradisino”! Non appena però mi ero abituato alla casa e alle sue scomodità che ora mi urtavano come non avevano fatto quand'ero giovane - anzi, mi erano piaciute - ecco che mi prendeva la smania di andarmene. E me ne andavo. Alla fine dell'estate la casa era di nuovo abitabile, non dico comoda: abitabile. Almeno non tossivo né starnutivo. Estate secca, per fortuna. Preso più o meno lo slancio, in autunno tornai. La Malaposta, questo il nome del luogo in questione, si presentava, a chi scendesse il sentiero - due bravi e cari operai armati di “ruspa” e spargitori di "malta" lo avevano restituito allo stato di percorribilità - si presentava come un qualcosa di abitabile posto appunto ai margini di un piccolo “pianoro” di poche centinaia di metri quadrati - proprio l'insieme che decenni prima me l'aveva reso desiderabile. Solo che avevo trent'anni. E ora settanta e più. In autunno tornai e volli com'è naturale accendere la stufa. Dovevo. Avevo fatto scorta di "legnetti", di carta, di legna da ardere tagliata come si deve, di “diavolina”, il veleno facilitante la fiamma. Avevo tutto sotto mano. Era giorno, diciamo che mi stavo portando avanti prima che facesse scuro. Composi gli strati e accesi. In effetti la fiamma, aiutata dalla “diavolina”, contagiò i “legnetti”, componente arricchita stavolta da piccole schegge di legno secco acquistate all'uopo, cedimento grave rispetto alla ruspanza dei normali e casuali “legnetti” da raccattare nei paraggi della casa. I “legnetti” a loro volta contagiarono la legna da ardere vera e propria, insomma tutto pareva funzionare. Per qualche minuto mi sentii in pace con la stufa, con la casa, con il mio presente. E poi venne il fumo, che invase tutta la grande stanza a pianterreno, cucina, pranzo, soggiorno. Fumo, tanto, e fui costretto ad aprire le finestre, prima quelle a pianterreno, poi quella su in camera da letto. Infine il fuoco si spense. Ho detto che era giorno, mortificato battei di nuovo in ritirata, feci il bagaglio, chiusi casa, e tornai in città. Sono fatto così. Durante le settimane seguenti cercai di non pensare troppo alla Mourn Warning, ma quel che mi venne in mente fu, in un momento di lucidità, che il tubo della stufa doveva essere ostruito. Ma certo! In tutti quei decenni chi mai lo aveva preso in considerazione! E negli ultimi dieci anni di abbandono poteva certo essere rimasto occluso. Serviva uno spazzacamino, tutto qui, mi dissi in quel mio momento di lucidità. Uno spazzacamino da cercare in paese. Nei paraggi, non certo in città! Tuttavia trascorsero l'autunno e l'inverno e non tornai alla Malaposta, né pensai alla Mourn Warning - quasi. Dicono che la campagna assorbe uno, ma anche la città lo assorbe. A tratti la mia disfatta mi tornava in mente, non lo nego, ma l'idea dello spazzacamino, non distinta da spiritosaggini tipo “ci saranno anche spazzacamini femmina, o sono solo maschi?” - ed altre che ometto, s'indeboliva. Valutai l'ipotesi di far cambiare tutto il riscaldamento, già che c'ero; di interessare un “tecnico” della MW, e non so che altro. Intanto m'immaginavo che la casa, dopo tanti mesi di solitudine, l'avrei trovata certo umida, in più venni spesso visitato da fantasie tremende circa danni al tetto, un “dettaglio” di cui non mi ero mai occupato né ai tempi né da ultimo. Trascorse l'inverno. Una mattina di maggio presi e tornai alla Malaposta, per coglierla per così dire di sorpresa. Per cogliere me di sorpresa portai una scala pieghevole “professionale” per controllare le condizioni del tetto. Sarei salito sul tetto della Malaposta per la prima volta - a più di settant'anni! Misi a tacere mia nonna, mia madre, che dentro di me mi ammonivano, tirai giù dal portabagagli dell'auto la scala e l'appoggiai, pronto all'impresa, alla grondaia del tetto. Entrai in casa. Sì, era freddo, un freddo cane, e umido. Di sopra appena un po' meno. I topi avevano sentito odor di bruciato, o meglio di veleno, e si erano tenuti alla larga. Bene, mi dissi, ora serve solo accendere la stufa e rincuorare l'aria. Vuotai dai resti del tentativo ultimo fatto l'interno della stufa e insieme - schifiltosamente – tolsi via dalla bocca del tubo un grosso bolo annerito che forse anni prima era appartenuto al regno animale. Un intruso proveniente dall'alto che aveva fatto un brutta fine. Rifeci tutto come sappiamo – ormai ero diventato un "teorico" – presi una zolletta di “diavolina” con le pinze, l'accesi e detti fuoco alla cartaccia. La fiamma si propagò sui “legnetti”, e poco dopo prese anche la legna vera e propria. Stetti a guardare. Niente fumo! Non si spegneva! Chiusi le due finestre a pianterreno, salii su e chiusi l'altra, poi corsi nel gabinetto e mi guardai allo specchio, esultante; aprii con il solito colpo magistrale il finestrino per vedermi meglio. Sì, esultavo. Riscesi, uscii di casa, di corsa mi allontanai di una decina di metri e guardai: il fumo usciva placido e sorridente dal comignolo. Per scaramanzia lasciai la scala “professionale” appoggiata alla grondaia del tetto. Ero felice di gioia, come diceva quello.

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