Il basco

Sceso dal pullman in piazza della Stazione, camminando verso la vicina fermata dell'autobus che lo avrebbe portato verso casa, Guido si accorse di aver lasciato il suo basco blu nuovo nel pullman, ma non tentò di tornare indietro per cercare di recuperarlo. Aveva fretta di tornare a casa? Alla normalità, piuttosto? Quel basco blu non gli piaceva? Non gliene importava, né aveva voglia di impegnarsi nella ricerca del pullman, che certo non sarebbe stato lì a sua disposizione. Non lo sapremmo mai, senza l'indagine che segue. Siamo consapevoli altresì che apparentemente l'evento è di trascurabilissimo rilievo. Era la fine di novembre del 1966, se non l'inizio di dicembre. L'alluvione che aveva colpito la città, ma aveva largamente risparmiato il rione dove Guido abitava, era ormai vecchia di un mese, all'incirca. Forse nel 1966 Guido considerava un basco blu come qualcosa di improponibile? Fuori moda per un ragazzo di 18 anni? Glielo aveva comprato suo zio a Genova, in un grande magazzino, nel tardo pomeriggio ventoso di una dozzina di giorni prima. Forse al momento del regalo Guido non aveva saputo dire di no allo zio? Che cosa ci faceva Guido a Genova insieme a suo zio? Poco prima dell'alluvione Guido era stato investito da una donna alla guida di un'auto, vicino a casa. Mentre lui sorpassava sulla sua Gilera l'auto, questa aveva curvato a sinistra e lo aveva colpito, o meglio gli aveva preso la gamba destra tra lo sportello di sinistra e il frastagliato fianco destro della moto - i due mezzi erano finiti, abbastanza lentamente però, prima sul marciapiede opposto, a sinistra, quindi si erano fermati in prossimità di un muro. La gamba destra di Guido era rimasta ferita insieme al suo piede. Piegata la forcella della moto. Per cui Guido non stava ancora in piedi il 6 novembre, giorno dell'alluvione, ma giaceva a letto. Niente di grave, ma non gli era facile appoggiare il piede destro a terra, per camminare. Fu così che Guido si perse l'alluvione. Era convalescente. Non appena fu in grado di muoversi certi amici lo accompagnarono in centro per fargli visitare i luoghi del fango. Uno di loro lo prese sulle spalle per fargli attraversare piazza Santa Croce, buia, mentre diversi mezzi anfibi dell'esercito sostavano dalla parte della chiesa. Passò qualche settimana. Il liceo di Guido era, come tutte le scuole della città, inagibile e chiuso. Vacanza! Per cui un invito della cugina – “vieni a Pietrasanta a passare qualche giorno” - poté essere accettato sia da Guido sia dai suoi. Non c'era scuola. A Pietrasanta lo zio di Guido, un dirigente minerario non antipatico e dotato di un passato avventuroso – era stato fatto prigioniero in Africa Settentrionale e aveva trascorso in California qualche semestre come POW (Prisoner of War) - dopo un paio di giorni non indimenticabili gli aveva proposto di accompagnarlo in Sardegna, dove aveva bisogno di andare per lavoro - “perché non vieni con me in Sardegna? Ci sei mai stato? No? Allora vieni! Ora telefono a tuo padre e gli chiediamo il permesso.” Accordato. Durante la telefonata lo zio e il padre di Guido, presente, dovevano essersi scambiati anche qualche spiritosaggine. Guido non cercò, pare, di conoscerne la natura, semmai si stupì della confidenza tra i due uomini. Se avesse avuto il vizio della psicologia, avrebbe potuto trascorrere dalle parole “confidenza tra i due” alle parole “confusione dei due”, passando così dall'esteriore altrui all'interiore suo proprio. Perché Guido, che non provava certo antipatia per lo zio, ma neppure ci aveva mai avuto direttamente a che fare, prima, accettò l'invito? Gli mancava il contatto con un padre? Perché no? - si disse, invece. L'invito era una proposta interessante, molto più interessante della “vacanza” a Pietrasanta e del ritorno a Firenze, dove aspettavano Guido la famiglia, noiosa, la sua moto da riparare, e la sua ragazza prigioniera in un ospedale – anche lei stava perdendosi l'alluvione. L'invito poteva dare adito a qualcosa di nuovo: in viaggio con lo zio, là dove Guido non era mai stato. Vale anche come metafora. I due partirono un pomeriggio per Genova, in treno. Uscendo il treno dalle gallerie, d'improvviso Guido vedeva, vicino, il mare. Arrivarono, faceva freddo, tirava il vento genovese. Entrarono in un grande magazzino e lo zio propose a Guido quel basco blu. Poi lo incaricò di andare al porto e di comprare tre biglietti Genova-Porto Torres. Lui aveva da fare altro. Perché tre biglietti e non due? Perché alla traversata avrebbe partecipato anche il grande capo dello zio, l'ingegner Scarcucchi. Ma pensa! Ciao al “viaggio con lo zio”. C'era uno sconosciuto, l'ingegner Scarcucchi, di cui Guido aveva certo sentito molto parlare, in famiglia. Preso nel meccanismo dello zio, Guido salì su un autobus e arrivato alla “stazione marittima” comprò i tre biglietti. Era già sera. Non sapeva che fare, stolido pensò di salire sulla nave e di aspettare su qualcosa di certo che gli altri due arrivassero. Aspetta aspetta, Guido stava, forse, iniziando a valutare l'ipotesi di scendere dalla nave e di piantarla lì. Poco prima del distacco della nave dalla terra ferma ecco lo zio trascinante - a braccetto - l'ingegner Scarcucchi che, vide Guido, zoppicava. Non avevano preso un taxi? I taxi non portavano i clienti fino alle navi? Dopotutto anche Guido zoppicava ancora un poco. L'ingegner Scarcucchi aveva una gamba rigida, però. I due, piuttosto comici, si avvicinarono, salirono. Presentazione del nipote al grande capo, cena. I due ritardatari andarono subito in cabina, invece Guido si mise a gironzolare nella nave - su una nave così grande non ci era mai salito, quindi voleva guardare in giro. Bellissima, Genova, una ghirlanda di luci in lontananza. Non c'era poi molto da vedere, nella nave, per cui dopo un po' di tempo Guido, ondeggiante, cercò la cabina, la trovò, entro al buio e al buio si arrampicò nella cuccetta destinata a lui. Era stato incaricato dallo zio di comprare tre biglietti per una cabina con quattro cuccette, o non aveva trovato di meglio? Dominava l'estraneità, comunque, non solo quella dell'ingegner Scarcucchi e del quarto sconosciuto, ma dopo tutto anche quella dello zio - senza contare l'estraneità di Guido a tutto l'insieme. A 18 anni, e sia pure con una certa gnagnera, si dorme. Guido però non si perse la forza del mare all'altezza delle Bocche di Bonifacio. Un'altalena da disteso. Prima di sbarcare Guido ebbe modo di gustare l'arroganza dell'ingegner Scarcucchi che, davanti alla cartina della Sardegna appesa su una parete, si lasciò andare a una sintesi da cui risultava che Guido lì era “l'ultima ruota del carro”, se lo zio era “l'attendente” del grande capo, Guido era “l'attendente dell'attendente”. Doveva obbedire. Aveva forse eccepito qualcosa alle asserzioni del grande capo? Guido, in effetti, seppe che a Porto Torres lo zio e il grande capo se ne sarebbero andati “per lavoro” da una parte, e lui da un'altra: avrebbe preso un pullman per Nuoro. Dove – lo zio aveva pensato a tutto! - lo aspettavano certi parenti, in effetti più suoi che dello zio, per la precisione il fratello minore della nonna materna di Guido, in breve “prozio”, un notevole personaggio che negli anni trenta era scappato da Firenze per dimenticarsi (“lontano dagli occhi” eccetera) la fidanzata che non aveva potuto sposare, e aveva accettato - “dottore in Agraria” - un posto di agrimensore in Sardegna, dov'era poi rimasto: né in trent'anni aveva perso un milligrammo di parlata fiorentina. Era stato cacciatore, era pensionato; fumava, non disdegnava né il Chiaretto del Campidano né la compagnia femminile, questa l'impressione, anni dopo, di Guido, e aveva avuto, anche lui, la passione per le motociclette. Oltre al prozio aspettavano Guido “a braccia aperte” sua moglie, una pisana di scarso rilievo, e i due figli, cosiddetti biscugini di Guido: fin lì ignoto il ragazzo, coetaneo di Guido, bruttarello, pingue, fidanzato; non ignota la figlia, adulta, “non bella”, loquacissima, da poco maritata con un bolognese scappato da qualche anno in Sardegna per sposare la suddetta e per allontanarsi almeno fisicamente dalla città dove aveva patito in effetti un tremendo lutto: arrivando là dove doveva incontrare la prima moglie, per andare al cinema, a Bologna, s'era imbattuto in un capannello confuso di gente che attorniava il cadavere della medesima, appena uccisa da un'auto. Costoro, ben cinque persone, erano “felicissime” di poter ospitare Guido! Così lo zio. “Vai a Nuoro”, disse, “ci resti qualche giorno e poi mi raggiungi a Cagliari.” Cos'aveva da fare lo zio, insieme al grande capo, che non ammetteva la presenza di Guido? Siamo noi a chiedercelo, francamente non sappiamo se Guido si ponesse il problema, se lo era. Non lo era? In effetti bisogna sapere, mancandoci notizie su ciò che pensava e sentiva Guido, che prima l'incidente stradale e poi l'alluvione avevano fatto un gran comodo a Guido, che proprio il pomeriggio dell'incidente aveva, sembra, dibattuto insieme a un amico gli argomenti da usare con il padre per convincerlo a fargli lasciare la scuola, a permettergli di studiare in proprio e presentarsi all'esame di maturità come “privatista”. Bastava anche meno!” - avrebbe potuto pensare Guido. Un incidente privato non banale, e una calamità che aveva infradiciato mezza Firenze. La Dea Fortuna aveva ecceduto, Guido non aveva preteso la chiusura delle scuole, intendeva solo uscirne lui. Forse sulle spalle di Guido gravavano questi pesi, che sopra abbiamo chiamato “gnagnera”, uggia. Qualsiasi cosa, anche andare a Nuoro dai prozii e dai biscugini, era dunque meglio che stare a Firenze, in cagnesco con padre e madre, scontento Guido, scontenti loro. In definitiva anche Guido era scappato in SardegnaPer cui prese il pullman, conobbe l'allora deserta “Carlo Felice”, che unisce il nord dell'isola al sud, si fermò in un paese dal nome straordinario, Arbatax, cambiò e dopo un'oretta fu a Nuoro. Il prozio donnaiolo, cacciatore, motociclista, tabagista e alzatore di gomito, abitava in una via che si chiamava Deffenu. Sceso dal pullman Guido chiese a un passante dove fosse questa via Deffenu. “Dopo il semaforo”, rispose il tipo. Guido, che non vedeva alcun semaforo, chiese: “quale?” “Ce n'è uno solo”, rispose il tipo. L'accoglienza fu “fantastica”. Guido iniziò dopo poco, era l'ora giusta, a mangiare e bere, Chiaretto del Campidano, fil e ferru, un'acquavite locale, e non avrebbe smesso di farlo, tra pranzi, merende e cene, per diversi giorni, ciò che alla fine lo convinse a scappare da Nuoro per raggiungere lo zio. La casa del prozio era piccola. Per cui Guido avrebbe dormito dalla biscugina, sposa del bolognese vedovo. L'appartamento si trovava in via Gramsci, era nuovo. Diversi giorni dopo lo zio, mentre lui e Guido, in auto, salivano da Civitavecchia, dov'erano sbarcati da “Golfo Aranci”, verso Grosseto, gli avrebbe detto che questa casa nuova della biscugina e del bolognese “non aveva finestre”. Lo zio provava un forte antipatia per il bolognese, in effetti non simpatico, che era sospettato, da lui e dal prozio di Guido, di essere “un avventuriero”: sposando la suddetta pulzella stagionata intendeva mettere le mani sul di lei “patrimonio”? Nemmeno fosse “un'ereditiera”! Da ciò lo sproposito, divertente però, della casa “senza finestre”. Lo zio disse che il bolognese era “figlio d'un cane”. Lo zio aveva ben pochi peli sulla lingua, questo in definitiva era il suo pregio. A parte il sorriso e l'esperienza di POW. Oltre che di finestre l'appartamento di via Gramsci era dotato di una piccola, ma non piccolissima, libreria entro cui Guido scelse Il compagno, un romanzo di Pavese che per l'appunto parlava, tra l'altro, di un tizio che subisce un brutto incidente in moto. Negli intervalli tra i pranzi, le merende e le cene, Guido venne portato dal biscugino nullafacente a godere le bellezze della città di Nuoro e dei suoi dintorni, fino alla celebrata Cala Gonone. A bordo di una Skoda che pareva un carrarmato. Un pomeriggio Guido entrò in una libreria nuorese e comprò un libro di Giuseppe Mazzini, Doveri dell'uomo, pensando che gli sarebbe stato utile in vista dell'esame di maturità, e un testo locale intitolato Su Bandidori: mai letti, seppure per motivi diversi. Guido aveva già ai tempi una pigra, incerta, “sordomuta”, così lui, passione per le lingue straniere - scritte. Voleva tradurre Su bandidori in italiano? La piccola obbligatoria serale intimità con i novelli sposi seccava Guido, che compensò il disagio con molti bagni caldi nella vasca del loro appartamento “senza finestre”. Bisogna sapere che a Firenze per giorni e giorni l'acqua era mancata, come succede quando ce n'è stata troppa fuori posto. Non bastava, però, quindi Guido riuscì a sganciarsi dai cinque ospitali suoi parenti, non troppo stretti ma soffocanti, e un pomeriggio, finalmente, salì sul pullman per Arbatax, dove avrebbe preso quello per Cagliari, lontana e luminosa meta. Se avessimo notizie sulla “ricezione” (o forse “percezione”?) da parte di Guido della città di Nuoro nel 1966, a parte “il semaforo”, che cosa ne trarremmo? Poco, temiamo. A Cagliari la società mineraria dello zio disponeva di una cosiddetta foresteria di cui Guido non ricorda altro che il freddo, cagliaritano ma sostanzioso, e le coperte, più pesanti che calde, di cui venne dotato. Erano di quei vecchiumi color grigio-marrone adorni di un paio di strisce “bianche”. Lo zio affidò una volta a Guido il compito di tradurre in inglese una missiva commerciale inerente una certa “bentonite”, nel dettaglio la “Wyoming Bentonite”. Ben, tonight?” Non è un calembour di Guido. Naturalmente lo zio, che aveva trascorso come POW diversi semestri in mano agli americani, pardon, statunitensi, capiva e parlava molto meglio di Guido l'inglese, ma forse, riflettiamo, non era ferrato in ortografia, se pure non volle occupare il nipote acciocché non si annoiasse troppo in quel buco di “foresteria”, come minimo “spartana”, così Guido. Una sera lo zio, cuciniere, insegnò a Guido, perplesso, come si devono cuocere le bistecchine di maiale. In sostanza: il sale e l'olio devono essere adoperati da ultimo. Non sappiamo del resto quante bistecchine di maiale Guido abbia messo in padella nella sua vita. Lo zio non mancava di chiacchiera, Guido lo ascoltava senza dire né sì né no, secondo uno stile ai tempi in formazione. Lo zio si apriva con quel suo nipote fin lì semi sconosciuto. Erogava consigli, pareri, vedremo che spropositava, anche. Una mattina Guido prese l'autobus e andò a vedere Cagliari, da cui la “foresteria” distava un poco. Non gli fece una grande impressione, a parte la luce, che gli parve immensa. Non tentò affatto di approfondire il contatto. A parte la gnagnera, occasionale, Guido era, anche da ragazzo, afflitto da un ben peggiore – tormentoso - bisogno di tornare a casa, dove beninteso si annoiava. Il tormento agiva, pare, come disturbatore di ogni intrapresa straordinaria. Fuori dell'ordinario, in questo senso, non in quello banale. Anche Cagliari ne fu vinta? Appuntamento davanti alla stazione, quella mattina: lo zio, venuto a prendere Guido, si produsse ridendo, colpito da qualche transito femminile, nell'imitazione, secondo lui, del cagliaritano che intenda attirare l'attenzione di una ragazza: signorrina me la ddice ll'òraRitornarono in auto, una carretta, nel nord dell'isola per imbarcarsi, carretta inclusa, a “Golfo Aranci”. Sostarono in un caffè. Guido si servì del cesso, dove qualcuno aveva usato l'asciugamano, già miserrimo, per nettarsi non le mani. Una virgola marrone. Tornato al tavolino riferì l'epifania. “Se è stato un ragazzo, a farlo”, disse lo zio, “è perdonabile, non se è stato un adulto.” Stavolta la cabina dove i due avrebbero trascorso la notte era grande, bella, né c'erano estranei. All'alba Guido seguì dall'alto della sua cuccetta l'andirivieni di una bottiglia – Vernaccia? - entro una valigia lasciata aperta. Sul ponte lo zio, spinto dalle circostanze, si produsse in un motto che forse risaliva ad anni lontani: “la differenza tra la nave e la donna? La nave fa fatica a mantener la rotta, la donna a mantenerla sana!” Prima però di sbarcare a Civitavecchia bisognerà riferire dell'altro sul soggiorno bifasico di Guido in Sardegna. Bella e semivuota di umani, di auto, e autunnale. Con lo zio e un certo Peru, un tipo di poche parole, ma esperto del “territorio”, Guido ebbe un paio di occasioni, nel sud dell'isola, di vederla. Una mattina piovosetta restò in auto mentre gli altri due cercavano, “sondavano”. Già allora attratto dal contrasto tra il grigio del cielo, della nebbia, e il verde della campagna, mentre aspettava all'improvviso vide un uomo a cavallo, aveva a tracolla un fucile, forse era un cacciatore, forse era il proprietario del terreno, incuriosito da quegli estranei. Un'apparizione. Gustò altresì delle magnifiche salsicce arrostite, in una trattoria. In un abitato dal nome non meno favoloso di Arbatax, Las Plassas, scese dall'auto su incarico dello zio per chiedere una qualche indicazione stradale. Tre vecchi seduti lungo la via, udita la domanda di Guido, non gli risposero alcunché. Durante il tragitto verso la “foresteria” della Ditta, una di queste volte, lo zio s'infervorò nell'elogio del lavoro e nella deprecazione della vita mondana. Guido non capì con chi ce l'avesse. Sbarcarono. Partirono verso il nord. Lo zio guidando si accalorò contro il bolognese di cui sopra, che non sappiamo se fosse “mondano”. Si era perfino messo, lo zio, invitato dal padre della pulzella, a indagare su quel supposto “avventuriero”. Nei dintorni di Follonica, presso una sede della Ditta, si fermarono per togliere dal letargo un'altra carretta destinata alla sede di diretta pertinenza dello zio, presso Pietrasanta. L'auto fin lì adoperata era sì un catorcio, ma almeno andava, invece quella che Guido, ora separato dallo zio, dové guidare da Follonica a Pietrasanta, sull'Aurelia, non superava i sessanta all'ora. Sono e furono più di 140 chilometri - di pena. Impossibile sorpassare alcun veicolo. Neppure un'Ape. Lo zio sull'altra carretta seguiva il nipote, nel caso che eccetera. Uno scopo della spedizione in Sardegna organizzata dallo zio, noi ora possiamo dire, ignari però della consapevolezza ai tempi possibile a Guido, troppo impegnato a guidare il catorcio, era stato, dunque, il trasporto di un'auto della Ditta “in continente” e la raccolta di un'altra “auto” nei pressi di Follonica, anch'essa da spostare a nord. Dunque l'invito fatto a Guido - “perché non vieni in Sardegna?” - era stato peloso. Un dono sì, contenente della fiducia nelle doti automobilistiche di Guido, ma con dentro la “sorpresa”. Arrivati nel tardo pomeriggio a Pietrasanta, Guido, snervato, intendeva partire subito, prendere un treno e tornare a Firenze. Disse allo zio: “c'è un treno comodo...” Lo zio rise e si produsse nell'ultima sua sentenza: “tutti i treni sono comodi.” Meditato a lungo. No, Guido non prese alcun treno, invece partì per Firenze il mattino dopo, in pullman. Sceso in piazza della Stazione, camminando verso la vicina fermata dell'autobus che lo avrebbe portato verso casa, si accorse di aver lasciato il suo basco blu nuovo nel pullman, ma non tentò di tornare indietro per cercare di recuperarlo. Ora sappiamo perché.








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