La caparra.

Con l'autobus arrivo in una periferia di cui ignoravo perfino il nome, Borgo Stelluti, m'infilo dentro un enorme condominio e trovo nell'atrio non il portinaio, ma due mastini slegati che sul collare esibiscono cartellini bianchi con su stampata una cifra: potrebbe essere il loro prezzo, mi dico. Li osservo, sono austeramente minacciosi. Una coppia di attempati casigliani, i padroni dei cani, dà poco peso alle mie proteste piuttosto controllate, e m'informa che i mastini sono gemelli: le cifre servono a distinguerli.
"Perché non due nomi?", domando. "Ma si tratta appunto dei loro nomi", rispondono.
Salgo al terzo piano in ascensore e visito l'appartamento  per cui ho versato una caparra senza ancora averlo visto, è grandissimo, mi colpisce un salone d'incredibile ampiezza, non rettangolare, infatti consiste di una larga curva. Per quel che mi serve, l'appartamento è troppo, e l'altezza del terzo piano non offre neppure il vantaggio di una qualche visuale panoramica.
Squilla il telefono, alzo il ricevitore e rispondo, si tratta di un probabile acquirente dell'appartamento in cui mi trovo, con cui tratto come se io fossi il proprietario. Mentre m'intrattengo con lo sconosciuto, mi domando mentalmente se la persona a cui ho versato la caparra è il proprietario dell'appartamento oppure è anche lui un acquirente.

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