Dare le spalle mentre si scrive porta guai

Avevo acquistato una casa nella parte più elevata del paese, il quale a sua volta guardava dall'alto la pianura in direzione del mare. Lungo una parete della casa, dalla parte della mulattiera, mi spettava un rettangolo erboso stretto che sarebbe stato erroneo chiamare orto, o giardino, delimitato da un muro basso. Avevo preso da anni l'abitudine di tenere, addossato a quella parete della casa, un tavolino, davanti al quale certe mattine stavo seduto a scrivere con il computer più o meno fino al momento in cui il sole spuntava sul margine del mio tetto. Allora toglievo il computer dal tavolino e lo riponevo in casa. La mulattiera, in parallelo con il mio basso muro, era chiusa da un altro muro altrettanto basso che apriva un vuoto nella fila delle case prospicienti la mia e le altre a lei vicine. Il vuoto avrebbe offerto una vista larghissima e profonda se io non gli avessi voltato le spalle mentre scrivevo, tuttavia di tale vista restavo consapevole, nello scrivere, e mi rallegrava ritrovarla di mattina quando uscivo dalla porta di casa e mi dirigevo, camminando sull'erba, verso il mio tavolino. Mi rallegrava sempre, a partire dal primo giorno di vacanza al paese. Mi rallegrava anche rimanere verso sera, prima di cena, in osservazione della pianura, delle colline e, a grande distanza, del mare. E, se non mi rallegrava, com'è ovvio che possa succedere, era divenuta un'abitudine immancabile. L'appuntamento con il tramonto era una delle qualità di quella vista. Un'altra, estrinseca, consisteva nell'impercorribilità della mulattiera da parte di auto. Del resto essa portava soltanto, poche decine di metri più in alto, alle rovine di una antica rocca.

L'anno scorso, tornato al paese per le vacanze, trovai che il vuoto tra le case davanti alla mia era stato riempito da una sopraelevazione del muro, che ora, alto almeno due metri, occludeva la mia cara vista della pianura, delle colline, del mare e, a sera, del tramonto. Al posto del muretto parallelo al mio, non poche volte occupato da persone anche soltanto desiderose di riprender fiato dopo la salita, si ergeva, è il caso di dire, una barriera. E' vero, mi dissi cercando di placare la mia contrarietà: dalle mie finestre al primo piano la vista rimane libera. Gli appuntamenti con il tramonto, o meglio con i tramonti, dal momento che non sono mai proprio uguali tra loro, restano liberi, come la pianura, le colline, il mare, l'Elba e, fortuna volendo, il “dito indice” della Corsica. Ma giù?

Giù, entro la mia striscia d'erba falciata alla meglio un paio di volte all'anno, la luce era tutta cambiata, scoprii presto, come l'aria, non più fresca, ma afosa. Dalle finestre a pianterreno non si vedeva più niente, anzi: si vedeva giustappunto il niente.

Il muro fatto alzare, come seppi presto, da un certo vicino, era grigio, di grossi mattoni che ora pesavano sull'antico muretto di pietra color caramello come una prepotenza.

Non sapevo perché il vicino avesse fatto alzare quell'obbrobrio e, non appena mi fu possibile, glielo chiesi. Costui, come me piuttosto anziano, calvo il vertice del capo, pochi capelli alquanto neri sulle tempie, molto basso, mi rispose non di aver voluto compensare con quella sopraelevazione la propria statura infima, ma di essere stato “obbligato” dal Comune a rinforzare il muro, secondo “l'ingegnere” a rischio di rovinare nel terreno sottostante. In effetti, accompagnato dal nano in prossimità di tale terreno, potei constatare che la muraglia era, vista da sotto, davvero colossale e oggettivamente ridicola. “E' una grazia, in definitiva, che, almeno dalla parte della mulattiera, sia rimasto, alla base, il vecchio muretto”, disse il nano. Nel tornare, poi, mostrandomi il sole ancora alto concluse: “non le mancherà certo la luce, professore, per scrivere le sue poesie!


Io non scrivo poesie, comunque non al computer, né all'aperto, per cui presi le parole del nano come un'uscita ironica, se non spregiosa. Seppi del resto in Comune che il nano, lungi dall'essere stato “obbligato dall'ingegnere” a rinforzare il suo muretto pericolante, aveva tafanato per anni l'assessorato competente per ottenere il permesso di chiudere il vuoto che sappiamo, e a proprie spese! “Da quanti anni?” - chiesi all'impiegato che mi aveva fornito tale versione. “Mah, non saprei, se ha un momento di pazienza vediamo la pratica.” Ebbi pazienza e scoprimmo che la prima richiesta del nano in merito al muretto risaliva a cinque anni prima, ovvero al 1995. Proprio l'anno in cui avevo iniziato, tardivamente, a usare il computer per le mie “poesie” e a portarlo con me, durante le vacanze, al paese. Certo il mio voltar le spalle alla mulattiera e ai suoi rari passanti, scrivendo, avrà turbato la sensibilità del nano, e magari non solo la sua.

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