Via Antonio Delfini n. 14.

"E' vero che non abito più qui, è vero che non passo di qui che qualche volta, credo ogni sei o sette mesi, ma è pur sempre casa mia, e questa è la mia buca delle lettere", gridò mio nonno nell'androne per farsi sentire dai casigliani (lui chiamava così i condòmini) dopo essersi accorto che lo sportello della sua cassetta era stato forzato, non solo: che la striscia di rame con su inciso il suo nome e cognome era sparita. Chiamò l'ascensore e salì al terzo piano, uscì dalla gabbia fatta di legno e di vetro che si era arrampicata dentro la gabbia fatta di ferro, uscì, chiavò il portoncino del suo appartamento abbandonato, trascurato, polveroso, trasandato e così via; e si aggirò dentro le quattro stanze urtando nel buio, o meglio nell'oscurità appena rischiarata dalla luce ammessa dalle persiane di legno, chiuse. Aprì le finestre e si guardò incontro. "Sapessi in che stato", mi disse più tardi, "era casa mia, non sono stato capace di fare nulla, ho dovuto richiudere le finestre e sono scappato, anzi, guarda, vedi un po' tu se puoi andarci, a vedere se manca qualcosa", mi disse, senza pensare che io non potevo certo sapere che cosa mancava, dato che ero all'oscuro di quel che l'appartamento aveva contenuto ai tempi dei tempi, quando il nonno ci abitava. Comunque fosse, andai all'indirizzo, via Antonio Delfini 14, ma il 14 di via Delfini non c'era, mi disse una signora cui avevo chiesto informazioni, "ma lei chi cerca?", mi domandò.

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