L'Indiano

Lavori stradali in un viale del parco stringono, no, anzi, chiudono con una striscia bianca e rossa di plastica, di quelle che i più chiamano fettuccia, il nostro percorso in bicicletta che è or ora divenuto una gara a chi arriva primo là dove si trova l'equivoco locale dedicato a un principe hindu che molti molti anni or sono finì la sua vita nella nostra città, dove si era fermato a causa dell'aggravarsi di quella malattia che lo aveva indotto a lasciare l'Inghilterra, dove studiava, per andare a morire in patria, nel Karegypur. "Chi arriva ultimo all'Indiano", ho gridato alla mia compagna, una velocista di vaglia, "chi arriva ultimo", ho gridato, ma già più non mi sentiva, tanto ero corso avanti. Sennonché lei mi ha raggiunto e siamo passati insieme tra le due transenne interrotte dalla fettuccia bianca e rossa. Lei non molla, io nemmeno, passiamo e sento un "ahi!". Si è ferita la mano destra sfiorando l'estremità di una delle due transenne. Intanto arriviamo all'Indiano. Scende dalla bici, lei, e sfodera meglio le sue snelle rotondità. "Andiamo dentro", dice, "forse avranno del disinfettante, e un cerotto", aggiunge dirigendosi verso la porta dell'Indiano. "No no", le grido dietro, "ci vado io, tu resti qui a far la guardia alle bici!"

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